Nei giorni di merda

Nei giorni di merda riprendi lucidità.

Nei giorni di merda il bisogno di scappare e la voglia di dimenticare passano in secondo piano perché non ci sei solo tu: ci sono i familiari prostrati da cinquant’anni di rogne, ci sono gli avvocati gentili che non sanno come dirti quanto gli dispiace ma hanno finito le perifrasi, ci sono i conoscenti che incontri per strada che sorridono, hanno una vaga idea dei fatti e alle tue spalle ne parlano dipingendo le situazioni secondo il loro gusto personale.

Il senso di impotenza nel non riuscire a ottenere quanto teoricamente dovrebbe essere garantito e per questo vedere chi ti ha cresciuto invecchiare nel dolore è una sensazione difficile da spiegare.

Che vadano a farsi inculare, se gli va, per me è indifferente.

Ci sono altrui responsabilità delle quali chiedere scusa, facce di merda che per mestiere dovrebbero aiutare e il condizionale glielo infileresti volentieri giù in gola a parole.

Ci sono cose che non si scelgono.

In giorni di merda passi davanti all’asilo che era il tuo e per un attimo vorresti poter rientrare e salire sulle giostrine per farti penzolare come da piccola, anzi no: da piccola ti faceva paura ma con il tempo a farti paura non ci sono più tubi di metallo ma carte bollate.

Poi vai avanti perché indietro non si va, perché piuttosto che ancora essere bambini è meglio sentirsi adulti anche se a metà.

Nelle giornate di merda il torpore passa.

Rimane una gran voglia – a che se lo merita – di rompere i coglioni, perché da grande o per abitudine, stupidamente, ti sembra di dover chiedere scusa anche a chi dovrebbe chiederlo a te.

Beh, oggi un paio di palle.

Incroci – Sabato sera

– Ma ciao!

– Ciao! Ti vedo in forma Ine!

– Ah sisi sono stata due giorni a riposarmi, sono stata in barca, sto proprio bene!

– Si vede

[…] 

– Dovremmo vederci più spesso! Ho sempre pensato che avessimo cose in comune io e te! In fondo siamo state innamorate della stessa persona e la stessa persona è stata innamorata di noi quindi.. Ha senso no?

– Ahahaha, sisi sono d’accordo!

– Poi ti leggo sempre, ti leggevo anche quando non parlavamo 

– Ah beh ci sta, poi il mio facebook è pubblico..

– No, il blog

– Cazzo dici??

– Sì-sì leggevo il tuo blog, mi piace come scrivi

– Grazie, ma te sei fuori! Ahahaha mi hai stesa!

– Beh uno che scrive online lo fa per essere letto no? Quindi io ti ho letta! Dai prendiamone un altro e facciamo pagare al mio moroso!

Sabato sera sono uscita con il mio amico Atteoassi, tramite il quale venerdì ho conosciuto Re.

Atteoassi è un personaggio atipico: alto, secco, occhialini, ordinatino, metodico, bel ragazzo, zero filtri. Come un bambino:

– Beh Gei, che braccia..

Cosa dirà a Gei, l’amica di sua morosa che non vedevano da tanto e che li ospita in Sardegna dove lavora ogni volta che la vanno a trovare?

Beh Gei, che braccia… Grasse.

Io e Atteoassi ogni tanto usciamo: Mazz – la sua ragazza e mia amica che ci dovrei fare sei post solo per inquadrare il personaggio – me lo presta e ci prendiamo mine alcoliche di discreto livello.

Con la scusa che nelle ultime 24 ore si era sentito un po’ Castagna – prima che fosse morto – siamo usciti a far aperitivo.

Atteoassi nei panni di Cupìdo è inguardabile, non ha la minima idea di come rendersi utile ma in compenso si agita moltissimo 

  quindi mentre venerdì parlavo tranquilla con ‘sti tre sconosciuti – ancora ignara del fatto che la mia fosse irruzione in una serata reunion tra amici che non si vedevano da dieci anni – mi prendeva continuamente da parte e con la discrezione di uno spacciatore per liceali e inizia a bisbigliare:

Sì ma guarda che se ci vuoi provare fallo adesso eh che poi non so se ci spostiamo, chissà quando lo rivedo poi quindi non so se dopo ti posso aiutare

Pat-pat, annuire e via.

Re mi guardava, io guardavo lui, tornato a casa mi aveva aggiunta su fb, lineare.

Insomma, sabato aperitivo: una bottiglia per noi due e alla seconda ci ha raggiunto Re, finita la terza ci siamo spostati nel Barpreferito e lì ho incrociato Ine.

Ora, non fraintendetemi: mi sono divertita molto con tutti ed è stata una bellissima serata

io e Re siamo rimasti a parlare fino alle tre dopo aver perso di vista gli altri

abbiamo un po’ limonato perché sono per il free-lemon dopo il quinto bicchiere e comunque mi andava

poi ci siamo sentiti, accordati per rivederci, nessun problema

ma vince la serata Ine, da un paio d’anni felicemente ex di M, la quale per lungo tempo è stata la cosa più simpatica di lui e che per chissà quanto mi ha letta nell’ombra. 

 

New Entry

Alto, altissimo.

Serio. Posato. Ironico. Ingenuo ma non troppo, recentemente deluso. Grande sportivo, bel ragazzo.

Come me non ama le carte da gioco e i posti chiassosi, diversamente da me gira con un borsello da controllore del bus e non fuma.

Amico di amico, conosciuto ieri e puntato da lontano, potrebbe risultare insospettabilmente interessante ma per ora maschera bene questa eventualità.

Piacere Re, ma a me manca P.

Come si è arrivati qui – P 8

Ho sempre dato importanza alla prima impressione.

Sono convinta che – contesto permettendo – la prima volta in cui si incontra qualcuno, le abituali misure comportamentali messe in atto per adattarsi o vendersial prossimo, vacillino.

Questo assestamento permette di scorgere, magari per pochi istanti, ciò che tendiamo a voler nascondere dietro di noi e – se si fa attenzione – della nuova conoscenza rimane, oltre ai dati volontariamente espressi, una traccia meno palpabile ma spesso veritiera. Non tutti riescono a coglierla, alcuni nemmeno si capacitano esista, io la becco al volo.

Qualcosa di simile si ottiene anche all’osservazione ripetuta – casuale, impersonale – dello stesso soggetto. Ci sono persone che non suscitano direttamente il nostro interesse a nessun livello in particolare  e nonostante questo incameriamo dati random su di loro. Almeno, a me succede.

La mia nozionistica su P non era granché.

Mi dava una sensazione, basata su appunti apparentemente sconnessi – l’incrocio nel corridoio del CUS un pomeriggio, il suono della risata insincera intercettata per caso una sera al bar, l’espressione sul viso quando non pensava di essere visto – di vago disagio.

Non ricordavo i quaranta minuti in cui mi aveva cagato il cazzo una notte d’agosto nella mia cucina l’anno prima ma avevo chiaro in mente il suo sguardo, fissato a un punto che non sapevo dire, in chissà quale spazio di ormai tanto tempo fa. Lo sguardo di un animale notturno.

Che non ci ero andata lontano: è un fornaio.

Era fine settembre e dopo qualche chiacchera avviata dall’inedita condivisione dello stesso spazio prossemico avevamo iniziato a cercarci di proposito.

Un pomeriggio qualunque  post-partitella tra i ragazzi, fuori dal bar del CUS ci trovavamo seduti vicini nel cerchio di voci e sedie. Stava guardando altrove distratto, a una mia affermazione si era girato rapidamente e mentre chiedeva “Scusami?” aveva appoggiato la sua mano destra sulla mia coscia sinistra.

Eravamo già stati vicini: al ritorno dal Padova Pride Village, nella sua auto.

Quella notte, sul sedile posteriore altri due ragazzi: Gna che era salito affermando “Tazza stai davanti tu che fai compagnia a P” e Bo, crollato sul sedile posteriore biascicando “Mghgh”.

Ero ormai sobria, avevo badato per ore al mio amico Rugbista che – al solito – versava in uno stato pietoso da metà serata e a quel punto sapevo aspettarmi due ore scarse di sonno prima della Magnafinal, un giro di sette km in campagna, sotto il sole, a tappe enogastronomiche. Non mi sentivo in vena di chiacchere e non mi sentivo a mio agio, ci mancava di dover tenere compagnia a quel tizio un po’ gentile e un po’ inquietante.

Le strade erano tranquille alle quattro del mattino, dalle retrovie i mugugni di Gna e i “feermati ferrmati!” di Bo, spezzavano le chiacchere generiche tra me e P.

L’auto scivolava senza far rumore, P tampellava lo stereo e pensavo che mi piaceva guardarlo guidare e che Bo cazzomadonna avrebbe potuto bere meno: tre pause vomito, due con:

  • Accostamento in autostrada subito dopo una salita

– Arrivo alla piazzola di sosta!

– ‘N ce la ‘accio ‘n ce la ‘accio

Bo pensa bene di stroncare aprendo la portiera verso la corsia, visibilità posteriore causa dislivello, minima

Bo una macchina!

Sfangata la decapitazione per mezzo secondo

  • Fermata spontanea ad un posto di blocco 

– Supero l’auto della polizia e mi fermo!

– ‘N ce la ‘accio ‘n ce la ‘accio

Vabbè…

Da un certo punto del tragitto in poi, mentre P  scherzava, cantava o mi sgridava continuavano a salirmi da non so dove pensieri. “Mah.. Ma no.”, lo valutavo ed era un “no” ripetuto, che dimenticavo ogni volta in cui ricominciavo ad ascoltarlo.

Nel pomeriggio post partitella facevo lo stesso: lo guardavo, pensavo “no” e mi piaceva quello che diceva 

“no” e mi rilassava il suono della sua voce 

“no” e trovavo divertente il suo inclinare la testa

“no” e se le storie – qualunque storia – sono fatte di tocchi e di gesti e di parole, per me è nella sua mano sulla mia gamba che questa è iniziata.


Pippone di pipponi – Good feeling 

Ieri sera, mentre stavo al Beer Shop di Z con P, dalla playlist è partito un pezzo dei Violent Femmes, che non era questo, ma me lo ha fatto venire in mente 

won’t you stay with me, just a little longer

Sono uscir a con P perché GMO Aveva scritto una cosa en Ci teen wolf che la legged se 

(Lol, avevo lasciato la tastiera in inglese e mi divertiva stare a vedere cosa veniva fuori)

Dicevo, sono uscita con P perché avevo scritto una cosa e ci tenevo la leggesse.

Tutto nasceva da una frase che mi aveva scritto due aprile (e o i?) fa B, a proposito del fatto che facessi sentire le persone sbagliate.

Faticavo ad afferrare cosa intendesse, o meglio: comprendevo il concetto, ma mi era oscuro come io riuscissi ad operare questa magia cattiva, specie su personaggi dotati inconfutabilmente di grande autostima ed ego smisurato. 

Ho sempre pensato di saperci fare con le parole.

Non come autrice di post stucchevoli o  pipponi a cui arrivavano in fondo solo segaioli mentali di calibro olimpionico – e la mia amica JU, lei adora i miei pipponi – bensì come emittente, quando è importante che il messaggio giunga forte e chiaro al ricevente.

Le mie epistole paranoidali sono sempre state precise nello spiegaremotivare e, quando ritenevo che il ragionamento fosse troppo ostico per una persona normale, esemplificare.

Ottenuto che il contenuto della mia testa si trovasse chiaramente espresso su una qualsivoglia superficie, per me il lavoro era finito.

Qualche sera fa P mi ha detto che non sentiva più come nei passati mesi. Era contento di vedermi, di trascorrere la serata insieme ma non avvertiva più quel trasporto che lo aveva spinto a voler stare con me.

Non che la cosa mi fosse sfuggita: dalla scelta delle emoticon nei messaggi alla frequenza con cui si faceva sentire a cosa sceglieva di raccontarmi piuttosto che no,  era evidente; ma mentre io – che non mi sentivo molto diversamente – lo trovavo fisiologico superabile dopo sette mesi per metà litigati, per lui si trattava di un punto d’arrivoC’est la vie.

Infatti gli avevo appena detto che si poteva pure lasciar lì tutto, perché ero triste sentendomi la sola a cui importasse, non per altro. Mi sarebbe piaciuto andare avanti, davvero.

It always seem like you’re leaving when I need you here just a little longer

Ho sempre pensato che – purché la base fosse presente – i rapporti migliori siano quelli costruiti insieme, di qualunque dimensione sia la fatica necessaria, cali emotivi compresi.

Quando P ha palesato a parole il suo pensiero, è come se qualcosa avesse fatto CRAC! nella gabbia toracica. Non all’altezza del cuore, più facile fosse un alveolo che doveva lasciar spazio al Lucky Strike Naturale Rosso che in questi giorni fumo direttamente arrotolando il pacco.

little voice says I’m going crazy 
to see all my worlds disappear

Ok, tranquy baby, nessun problema: non ce la si può prendere con qualcuno per i sentimenti che prova.

Ce la si potrebbe prendere per la tempistica, irrispettosa del mio bisogno di concentrarmi su altro in quel momento, per il fatto che un po’ penso fosse un fuoco preventivo in risposta ad un mio “dobbiamo parlare” (peraltro di una cazzata) di qualche settimana prima ancora in sospeso, ma in fondo sticazzi.

Il punto è che ha rotto qualcosa. Non mi succedeva da anni, era una sensazione che avevo completamente dimenticato.

Allora mi sono chiesta se le parole che avevo usato con lui nei mesi quando ero arrabbiata – molto arrabbiata – non gli avessero fatto quello che lui aveva appena fatto a me, se non gli avessi io per prima spezzato i sentimenti, se veramente lo avessi fatto sentire sbagliato

Per questo gli ho scritto.

Sei facciate con la bic blu dove gli spiegavo che non volevo, che non avevo fatto apposta e che mi dispiaceva tanto.

Gli ho detto che quando stai molto tempo senza provare sentimenti capita di scordare che alcuni di loro esistano, che non volevo fargli male ma non pensavo di stargliene facendo, che non aveva nulla di sbagliato.

Ho scritto molte cose: non volevo rimanesse più calcato nel suo ricordo di noi il fatto che lo avessi bombardato con granate di parole, volevo ricordasse i momenti in cui abbiamo riso e ci siamo picchiati, quelli in cui era bello vedersi arrivare da lontano, le zozzerie quando sotto c’erano più emozioni che lenzuola.

E altre cose ancora.

Risultato: mentre passavo il tempo che gli serviva a concludere la lettura con l’ultimo post di Ortolani, P andava disperandosi

Non

ci

becco

mai

Credevo gli avrebbe fatto piacere, magari un po’ effetto come ne aveva fatto a me scriverlo ma non volevo farlo sentire male.

“Mi hai messo una roba addosso”

“Scusa..”

Ma insomma, uno ti dice che sostanzialmente non gliene frega nulla di stare con te, che:

“Potremmo uscire ogni tanto e vedere come va”

“Ma spiegami: nel mentre posso uscire con altri se voglio?”

“Beh certo”

quindi – stringendo – trattasi di un “restiamo amici” poi, mi si agita in quel modo per qualche parola gentile. 

Va là che non ho riso mentre leggevo Ortolani..

Vague sketch of a fantasy 
Laughing at the sunrise  
like he’s been up all night

Nemmeno stavolta sono riuscita a non colpirlo, a non farlo sentire male per qualcosa che gli volevo far sapere.

Posto ormai che P probabilmente è un po’ delicato, mi chiedo se sia questione di incompatibilità con le persone che tipicamente sollevano il mio interesse o se sia incompatibile con i sentimenti in generale.

“Ma guarda.. Mi scrivi queste cose, mi fanno questo effetto.. e tu sei lì così… calma”

Baby, non sono calma: sono sconfitta. La partita è finita e io ho perso. Che dovrei fare, piangere? Se lo facessi ti sentiresti meglio?

Mi rendo conto di apparire indifferente, quello che potevo comunicarti l’ho fatto abbracciandoti, cercandoti, scrivendoti, non siamo mai stati tranquilli abbastanza a lungo perché riuscissi a farti vedere qualcosa di diverso dall’affetto e dalla durezza e non sono capace di iniziare ora.

Questa è una stanca, quieta resa.

Ooo slippin’ and slidin’, what a good time but now have to find a bed that can take this weight



Come si è arrivati qui – P 7 (i “pre” sono finiti)

Poi con Oppi è durata molto poco. Non avevamo granché da dirci, quando lui si è stufato di sbattermi contro i muri dei vicoli per limoni da stunt-men hardcore e io di avere a che fare con l’ennesimo bimbone – per quanto adorabile eh – la cosa è scemata in modo piuttosto indolore.  

 (Come avevo salvato in rubrica Oppi, a lui non aveva fatto ridere)

Un po’ di malumore, quello sì, che per me corrisponde più o meno a ciò che per altri è lo stato di grazia totale.

Le sere di fine estate in piazza erano tornate a essere tranquillamente pigre, tra amici, le solite sciocchezze e battute e birre. Per citare me stessa: a volte ti chiedi come mai con alcuni facenti parte del tuo entourage da secoli, tu non abbia mai legato e la risposta spesso è banalesono degli imbecilli.

Altre volte la risposta è ancora più banale: sono silenziosi.

Degli imbecilli silenziosi.

Ma a volte silenziosi e basta, non saprei, in fondo la maggior parte delle persone sono come una ricca insalata di riso: lasciano un gusto diverso a seconda di cosa ti capita nella forchetta. 

P era lì.

Nelle serate di piazza quiete, in un’incursione al Padova Pride Village, in campo durante ogni partita.

Non ricordavo di averlo mai nemmeno salutato prima di quell’estate, sapevo chi fosse perché giocava e sua morosa era una tipa universalmente considerata cagna – titolo al quale penso ambisse dichiaratamente – famosa per aver collezionato un numero ragguardevole di rugbisti trombati e aver avuto un paio di uscite infelici sulle donne della società sportiva – cioè noi – poi alla fine stava con P. Questi erano i dati presenti nel mio database degli sticazzi, del quale mi importa talmente poco che nemmeno ricordo di aggiornarlo (si riempie solo al seicentesimo ascolto dello stesso discorso fatto da altri).

In una di quelle serate di fine estate insomma, nella solita insalata improvvisata – stessa struttura, ingredienti variabili – mentre fingevo interesse per i presenti ma nessuno di loro era il motivo per cui mi trovavo lì, inizia con qualcuno a caso un dialogo su Harry Potter e Game of Thrones.

Ero talmente distratta da quello che avevo nella testa che faticavo a guardare in faccia il mio interlocutore, nonostante si stesse parlando di roba che mi piaceva un sacco! Ad un certo punto, saltando di palo in frasca:

– Abiti ancora in quella via?

E questo come cazzo fa a sapere dove abitavo..? Non ricordo fosse amico della mia ex coinquilina, me l’avrebbe nominato..

– No, non ci abito più..

– Era grande, quell’appartamento!

– Sì.. Ma come fai a saperlo?

– Ci sono stato

– Ma quando..?

– L’anno scorso! La notte che hai fatto il riso con le cose strane e il pollo, non so

Checcazzo.

Tredici mesi prima, in un’estate come un’altra, in un periodo in cui limonavo uno psicopatico come tanti altri (che però stava veramente sotto farmaci causa follia), c’era stata una serata – bella, finita con un sestetto del tutto inedito (c’era anche Diciassettenne) – in cui alle tre e mezza del mattino una mia amica, che in quel momento avevo odiato, se n’era uscita con: “Andiamo a mangiare qualcosa a casa di Tazza!”

Ah, ok..

Nel ripensarci, con un POF! da cartone animato, P è comparso nel ricordo di quella notte: un immenso cagacazzi che – mentre gli altri cinque squatter si erano sistemati in salotto – era rimasto in piedi alle mie spalle tutto il tempo necessario a preparare qualcosa con cui nutrire quelle sei piattole.

– Secondo me il riso è troppo, quello cos’è? Thaina? E a cosa serve? Ma sei sicura che si faccia così? Io quello non lo metterei…

Io lo ammazzo, io questo lo ammazzo. Se non fosse il doppio di me lo avrei già ammazzato..

Lo avevo completamente rimosso, dimenticato! Non la serata, solo lui! Difatti, il mio subconscio era già avanti:  aveva già iniziato a fare quello che va fatto

davanti

ai
grossi
traumi.

Stordito random in una giornata dimmerda

Ieri sera sono uscita, non succedeva da ere, ho bevuto due birre, fatto le tre, dormito cinque ore, mangiato come un bidone al risveglio  

 (e non metto la foto del bis) e niente, mi sento nammerda.

Dovevo fare un esame lunedì, non lo farò perché non ho studiato un cazzo e non ho nemmeno finito il cv, cosa che rimanderò ancora stasera.

Pensavo di aver superato la stupida condizione di dipendenza da altre persone per l’equilibrio psicofisico, ma non è solo questione di P.

La mia vita è un contrappasso.

Da persona dimmerda ma sveglia e attiva sono andata spegnendomi senza che nessuno attorno ci credesse perché “beh ma tanto lei ce la fa alla fine, è un momento“.

Otto anni.

Alla faccia del momento.

Poi mi sono ripresa rendendomi conto che la base di tutti i miei problemi fisici è una base autoimmune che mi rende intollerante, che detto a me sembra una di quelle battute che non fanno ridere.

Sì, intollerante di nome e di fatto.

Principalmente al glutine ma non solo, io che di Man vs Food dovrei avere la proprietà sia gastrica che intellettuale. Bah, tempi che furono.

Riaccendere il cervello dopo otto anni di stand-by è un’esperienza ancora non esaurita nonostante sia iniziata circa un anno e mezzo fa, ma come ogni riavvio di macchine spente a lungo, presenta numerosi intoppi, sui quali ho zero cazzi di soffermarmi ora.

Comunque, da brava figlia di ex fornai scopertasi intossicata (e pure questo fa il paio dei doppi sensi tristi dato che la mia famiglia è da ospedale psichiatrico) cos’ho ben pensato di fare una volta riemersa? Considerare come primo individuo interessante per avere una storia – dopo ere – un fornaio col complesso del ciccione.

Ci terrei a chiarire che P non è ciccione, ma come molte persone che hanno perso l’equivalente in peso di Kaylie Minogue, c’ha un po’ il complesso.

“E questo che c’entra?”, potrebbe chiedersi un ignaro lettore inpiegabilmente giunto fino a questo punto.

Che io odio i ciccioni.

Parentesi: questo non è propriamente vero, io semplicemente odio l’indolenza, che ha caratterizzato i miei anni bui e il voler convincere il prossimo ad ogni costo per partito preso o perché é più facile che mettere in discussione le proprie opinioni, uno dei difetti che a oggi odio di più della me adolescente.

(Ciao me adolescente, vedi un po’ di andartene affanculo) 

Quindi, quando si parla con ciccioni o di ciccioni, mi mostro particolarmente intollerante (vedete? Non se ne esce)

Io non mangio tanto, sono gli ormoni

Allora facceli clonare che risolviamo il problema della denutrizione mondiale, futuro Nobel per il grasso.

Guarda che mangio pochissimo!

Oddio, paragonato al consumo medio della provincia, può pure essere.

Non mi piace la gente che mi vuole coglionare. Poi, se vogliono coglionare se stessi fatti loro, ma non vengano a rompere le palle a me che per colpa della mia ignoranza – e incompetenza dei medici – mi sono suicidata a suon di penne rigate per anni senza nemmeno saperlo.

Comunque, non mi capisco.

Non capisco cosa rincorro in persone che so in partenza in avere nulla di concreto in comune con me, non capisco cosa voglio e non so ancora cosa mettermi e tra poco devo uscire.

Ci aggiorniamo.

(Ah, la spesa però è stata divertente)