sembra che abbia avuto solo una serie di momenti di merda intervallati dai pasti.
Non è così: ho un sacco di bei ricordi
però
da un lato, è l’aver rovesciato il vaso della cacca che richiede di farci i conti in fila, dall’altro, mi rendo conto di aver passato due decenni sul chi vive.
La fisiologia insegna: quando il terreno sotto i piedi è incerto, tutti i muscoli sono tesi, perché il cervello non sa cosa aspettarsi e il suo scopo è impedirti di cadere.
I miei muscoli sono stati tesi a lungo, giorni, mesi e anni, pronti a scattare, mi hanno resa capace di esplodere in ogni momento. Bastava una goccia, non era importante da dove arrivasse. Qualunque piccola vibrazione in più, era insopportabile.
A questo punto ci sono arrivata sui vent’anni.
I momenti più belli mi facevano sfiatare, e sentire in colpa. La colpa è una cosa che conosco bene: ogni cosa era colpa di qualcuno, spesso mia o del fatto che ci fossi.
Lo so che non era intesa come mia responsabilità, lo so che non ho scelto io di esistere e non so contare le volte che avrei preferito fosse stato evitato.
Però le parole hanno un peso.
Le parole degli altri mi hanno definita da sempre come un colpo che non era stato possibile schivare, inferto da mia madre a chiunque avesse intorno.
Ero troppo piccola, per capire cosa a casa mi volessero dire.
Volevano dire che mi volevano bene e che non avrei dovuto esserci allo stesso tempo, come si dipingono gli intralci letterari: quei personaggi che loro malgrado hanno cambiato il corso della storia.
Ma io non ero scritta in un libro e non potevo adattarmi costantemente alle virgole a ai sospiri, o ai dolori, che regolarmente mi trovavo cuciti addosso. I miei muscoli erano tesi e punti dagli spilli con cui mi fissavano appunti sulla pelle.
“Imprevisto, ma è così bella”
“Intralcio, ma tanto educata”
“Indesiderata, ma talmente amata”
Ad un certo punto, non ci ho capito più niente. Le parole dei miei familiari erano insiemi di incongruenze, e così nella mia testa non c’era un concetto che si impilasse correttamente con l’altro. Nella mia testa, c’erano appunti ammucchiati di altri che mi dicevano cos’ero e perché.
Se cerco un ricordo felice per asciugarmi qualcosa dagli occhi, devo tornare a quando c’era il nonno.
Il presepe preparato tutti insieme nel salotto della bisnonna, uno dei giorni prima di Natale;
i pomeriggi in cui ci trovavamo tutte nel forno a tirare le sfoglie e chiudere i tortellini. Mi lavavo le mani e li piegavo a metà, poi la nonna lì chiudeva, Ina impastava e stendeva e allargava la pasta gialla sul piano di marmo grigio e si chiacchierava di chi era morto e chi vivo, di chi aveva scopato a casa dell’altro, delle fortune dissipate da figli sventati, del peggio che c’era nelle case di tutti ma poi si rideva di altre sciocchezze.
Imparai anni dopo che quei discorsi, grotteschi per me, non erano altro che un confortarsi tra adulti che viaggiavano su acque ostili.
I miei avevano la mia folle madre e me, Ina aveva un marito che aveva truffato mezzo paese e gran parti di altri, storie di fondi pensione fatti sparire. Era amica di mia nonna, io la conoscevo così e perché dai miei primi anni mi svegliava canticchiando Gianni Morandi, cercando di sedurmi con “il latte alla francese”.
Il latte alla francese era un tazzone bollente con immerso sul fondo un cucchiaio di Nutella. I miei non volevano comprare il Nesquick, perché ai tempi al supermercato si andava di rado e non era necessario, allora lei risolse così.
Poi andavamo in soffitta a stirare. Lei stirava e io la guardavo. “Marina, Marina, Marina, ti voglio al più presto sposar…” cantava forte, avvolta dal vapore del ferro da stiro. Lei rideva sempre. Io non lo sapevo, che era passata dal vivere in una bella casa con la domestica, nelle automobili e infiniti vestiti, a nascondersi lì con noi.
Quando era stato chiaro di che portata fosse il disastro, si era rimboccata le maniche. Tante amiche le avevano regalato qualcosa: abiti, soldi. Mia nonna no. Mia nonna, che è bella ancora adesso e lavorava in forno con sotto il foulard i capelli biondi perfetti e le mani curate di una regina (con lo smalto solo di sabato sera, se no finiva negli impasti), non voleva che Ina le dovesse qualcosa. Sarebbe stata l’ennesima umiliazione.
Mia nonna le diede lavoro: tutto quello che non riusciva a fare da sola in una casa piena di gente, lo lasciava fare a lei.
E quando in negozio si presentavano i creditori di quell’idiota del marito, mia nonna diceva loro che non sapeva dove fosse, spedendo una delle mie zie su per le scale ad avvisarla di rimanere.
Ina non aveva soldi da restituire: era una moglie, era la mamma di tre figli che adorava, che calcolava cosa poteva mettere in tavola perché la più grande, dotata della stessa indole ciarliera e festosa della sua mamma, potesse una volta ogni tanto andare a ballare. Intanto, lei ballava con il matterello in mano, inamidando i colli delle camicie del nonno e mentre sbatteva i panni da stendere. Non l’ho sentita lamentarsi una volta, non l’ho mai vista meno che raggiante. Ina, al posto di piangere, cantava.
I miei si lamentavano per tutto, criticavano chiunque, ma non hanno rinfacciato una volta i soldi pagati, prestati, buttati per aiutare chi ne avesse bisogno. E Ina se li guadagnava, tutti gli altri no.
Non si sono tirati indietro una volta quando c’è stato qualcosa da fare di necessario, anche le volte in cui non era una loro responsabilità, anche con me.
La mia famiglia amava con le mani e il sudore, nient’altro. Di tutte le cose inutili che potevano rompersi con l’uso diretto, si faceva un bel pacco da tenere nell’armadio, con la biancheria costosa mai usata, vicino ai cappotti da sfoggiare per la Pasqua. Pezzi di anima mai levati dalle confezioni.
Quando c’era mio nonno e tutti erano felici, quando c’era Ina che lavorando cantava e sulle scale scoppiavano bombe di risate, la terra sotto ai miei piedi si fermava. Persino mia madre era lì, quei pomeriggi, e non sembrava più pazza, e le mie zie ascoltavano e ridevano.
Poi il nonno è morto, il lavoro è calato e tutto è cambiato. Non ci sono più state abbastanza persone per diluire le colpe, né il loro peso a fermare la terra.