Un film muto a colori

Il Dr. Luke tra le altre cose, ha espresso preoccupazione per la mia vita relazionale.

“Queste cose vanno risolte, per permetterle di avere un rapporto con le persone, anche sentimentale”

È da più anni rispetto a quanti chiunque possa pensare, che ho abbandonato l’idea.

Le persone per me, sono cruciverba da finire, e poi collezionare.

Non ho mai pensato sul serio di dovermene tenere una.

“E dopo la laurea, cosa vorrebbe fare?”

Io l’ho guardato scuotendo debolmente la testa, perché la nostra ora abbondante era quasi finita e anche la mia batteria.

“Non lo sa, non ci pensa?”

Non sul serio, gli ha ripetuto la mia testa.

“Lei non pensa al futuro”.

È la verità: non penso al futuro. Non ho mai pensato davvero al futuro. Ad un certo punto, il presente è finito ed è rimasto solo il passato. Come si fa a pensare a qualcosa, se per te non ha significato?

Negli ultimi anni, invaghirmi di qualcuno significava avere un pensiero meno odioso del solito prima di dormire. Pensavo a quel lui, a come sarebbero stati un giorno o due e trovarcisi nuda davanti, immersa, e poi a come sarebbe finita: tutta la scena, per filo e per segno. Cos’avrei detto io, cos’avrebbe detto l’altro.

Nient’altro.

Mi piace risolvere gli enigmi dei bugiardi: quegli individui dove la voce prende una strada diversa dai gesti. I disonesti innocenti.

Una vita trascorsa a decifrare incongruenze mi ha portata a guardare gli altri senza ascoltarli. Sono brava a stare a sentire, ma la trama effettiva è nel come dei gesti, non nel contenuto delle parole. Quando coincide, il gioco è finito.

Mi piace chi recita male, chi combatte tra quello che crede e quello che ignora.

Sui segni del corpo, non vincono mai le parole insincere, tutto sommato è facile, abbastanza facile da venirmi a noia.

Il futuro è una dimensione da costruire e io non ho le energie per farlo. Alzarmi ogni mattina mi sfianca abbastanza da desiderare solo di tornare a dormire, vivere è una cosa che odio e fingere diversamente, risucchia tutto il resto.

Non ho mai pensato al futuro, forse perché ogni energia è andata nel portarmi dietro me stessa, e io non sono altro che un deposito di passato.

Sono una persona che non funziona, sono un computer rallentato.

Da quello che scrivo

sembra che abbia avuto solo una serie di momenti di merda intervallati dai pasti.

Non è così: ho un sacco di bei ricordi

però

da un lato, è l’aver rovesciato il vaso della cacca che richiede di farci i conti in fila, dall’altro, mi rendo conto di aver passato due decenni sul chi vive.

La fisiologia insegna: quando il terreno sotto i piedi è incerto, tutti i muscoli sono tesi, perché il cervello non sa cosa aspettarsi e il suo scopo è impedirti di cadere.

I miei muscoli sono stati tesi a lungo, giorni, mesi e anni, pronti a scattare, mi hanno resa capace di esplodere in ogni momento. Bastava una goccia, non era importante da dove arrivasse. Qualunque piccola vibrazione in più, era insopportabile.

A questo punto ci sono arrivata sui vent’anni.

I momenti più belli mi facevano sfiatare, e sentire in colpa. La colpa è una cosa che conosco bene: ogni cosa era colpa di qualcuno, spesso mia o del fatto che ci fossi.

Lo so che non era intesa come mia responsabilità, lo so che non ho scelto io di esistere e non so contare le volte che avrei preferito fosse stato evitato.

Però le parole hanno un peso.

Le parole degli altri mi hanno definita da sempre come un colpo che non era stato possibile schivare, inferto da mia madre a chiunque avesse intorno.

Ero troppo piccola, per capire cosa a casa mi volessero dire.

Volevano dire che mi volevano bene e che non avrei dovuto esserci allo stesso tempo, come si dipingono gli intralci letterari: quei personaggi che loro malgrado hanno cambiato il corso della storia.

Ma io non ero scritta in un libro e non potevo adattarmi costantemente alle virgole a ai sospiri, o ai dolori, che regolarmente mi trovavo cuciti addosso. I miei muscoli erano tesi e punti dagli spilli con cui mi fissavano appunti sulla pelle.

“Imprevisto, ma è così bella”

“Intralcio, ma tanto educata”

“Indesiderata, ma talmente amata”

Ad un certo punto, non ci ho capito più niente. Le parole dei miei familiari erano insiemi di incongruenze, e così nella mia testa non c’era un concetto che si impilasse correttamente con l’altro. Nella mia testa, c’erano appunti ammucchiati di altri che mi dicevano cos’ero e perché.

Se cerco un ricordo felice per asciugarmi qualcosa dagli occhi, devo tornare a quando c’era il nonno.

Il presepe preparato tutti insieme nel salotto della bisnonna, uno dei giorni prima di Natale;

i pomeriggi in cui ci trovavamo tutte nel forno a tirare le sfoglie e chiudere i tortellini. Mi lavavo le mani e li piegavo a metà, poi la nonna lì chiudeva, Ina impastava e stendeva e allargava la pasta gialla sul piano di marmo grigio e si chiacchierava di chi era morto e chi vivo, di chi aveva scopato a casa dell’altro, delle fortune dissipate da figli sventati, del peggio che c’era nelle case di tutti ma poi si rideva di altre sciocchezze.

Imparai anni dopo che quei discorsi, grotteschi per me, non erano altro che un confortarsi tra adulti che viaggiavano su acque ostili.

I miei avevano la mia folle madre e me, Ina aveva un marito che aveva truffato mezzo paese e gran parti di altri, storie di fondi pensione fatti sparire. Era amica di mia nonna, io la conoscevo così e perché dai miei primi anni mi svegliava canticchiando Gianni Morandi, cercando di sedurmi con “il latte alla francese”.

Il latte alla francese era un tazzone bollente con immerso sul fondo un cucchiaio di Nutella. I miei non volevano comprare il Nesquick, perché ai tempi al supermercato si andava di rado e non era necessario, allora lei risolse così.

Poi andavamo in soffitta a stirare. Lei stirava e io la guardavo. “Marina, Marina, Marina, ti voglio al più presto sposar…” cantava forte, avvolta dal vapore del ferro da stiro. Lei rideva sempre. Io non lo sapevo, che era passata dal vivere in una bella casa con la domestica, nelle automobili e infiniti vestiti, a nascondersi lì con noi.

Quando era stato chiaro di che portata fosse il disastro, si era rimboccata le maniche. Tante amiche le avevano regalato qualcosa: abiti, soldi. Mia nonna no. Mia nonna, che è bella ancora adesso e lavorava in forno con sotto il foulard i capelli biondi perfetti e le mani curate di una regina (con lo smalto solo di sabato sera, se no finiva negli impasti), non voleva che Ina le dovesse qualcosa. Sarebbe stata l’ennesima umiliazione.

Mia nonna le diede lavoro: tutto quello che non riusciva a fare da sola in una casa piena di gente, lo lasciava fare a lei.

E quando in negozio si presentavano i creditori di quell’idiota del marito, mia nonna diceva loro che non sapeva dove fosse, spedendo una delle mie zie su per le scale ad avvisarla di rimanere.

Ina non aveva soldi da restituire: era una moglie, era la mamma di tre figli che adorava, che calcolava cosa poteva mettere in tavola perché la più grande, dotata della stessa indole ciarliera e festosa della sua mamma, potesse una volta ogni tanto andare a ballare. Intanto, lei ballava con il matterello in mano, inamidando i colli delle camicie del nonno e mentre sbatteva i panni da stendere. Non l’ho sentita lamentarsi una volta, non l’ho mai vista meno che raggiante. Ina, al posto di piangere, cantava.

I miei si lamentavano per tutto, criticavano chiunque, ma non hanno rinfacciato una volta i soldi pagati, prestati, buttati per aiutare chi ne avesse bisogno. E Ina se li guadagnava, tutti gli altri no.

Non si sono tirati indietro una volta quando c’è stato qualcosa da fare di necessario, anche le volte in cui non era una loro responsabilità, anche con me.

La mia famiglia amava con le mani e il sudore, nient’altro. Di tutte le cose inutili che potevano rompersi con l’uso diretto, si faceva un bel pacco da tenere nell’armadio, con la biancheria costosa mai usata, vicino ai cappotti da sfoggiare per la Pasqua. Pezzi di anima mai levati dalle confezioni.

Quando c’era mio nonno e tutti erano felici, quando c’era Ina che lavorando cantava e sulle scale scoppiavano bombe di risate, la terra sotto ai miei piedi si fermava. Persino mia madre era lì, quei pomeriggi, e non sembrava più pazza, e le mie zie ascoltavano e ridevano.

Poi il nonno è morto, il lavoro è calato e tutto è cambiato. Non ci sono più state abbastanza persone per diluire le colpe, né il loro peso a fermare la terra.

I clacson

La mia famiglia

intendo la parte di mia madre

ha fatto del suo meglio.

Poi, che abbiano sottostimato il concetto di “meglio”, è un altro paio di maniche.

Del resto, non mi aveva chiesta nessuno.

L’anno scorso, forse due anni fa, mio padre mi ha raccontato in che circostanze sono stata concepita.

Lui frequentava una palestra vicino casa/attività dei miei nonni materni, e mia madre lo tampinava.

Mia madre era bella ma folle, chiaramente folle, anche se – allora come ora – non stava bene dirlo. La primogenita di una famiglia di artigiani che si erano fatti da soli, cresciuti con la guerra, che l’avevano curata in tutto e per tutto, partendo dagli episodi di epilessia dei primi anni, fino al tentativo costante di contenerne gli eccessi umorali degli anni a venire, sempre più evidenti.

Lei lo tampinava, lui collezionava amanti.

Una sera, in cui era giù di morale, lei ottenne quello che voleva: riuscì a farsi mettere incinta.

Ne seguì un disastroso matrimonio che resistette meno di dieci mesi. Mia madre era folle e mio padre immaturo, la vita di tutti sarebbe stata enormemente diversa, se io non fossi esistita. Questo lo avrei capito anche se tutti gli artefici della mia esistenza non me lo avessero ripetuto allo sfinimento.

Quando avevo sei anni, il padre di mia madre morì, lasciando sei donne sole:

sua madre, la mia bisnonna, già vedova di un marito e orfana di un altro figlio;

sua moglie, con tre figlie, la cui maggiore era più impegnativa delle altre due insieme;

mia zia A., quella di mezzo, che aveva ereditato una morale strettamente cattolica;

mia zia J., all’epoca diciottenne, che si era già sentita abbandonata quando l’attenzione di tutti si era spostata su di me.

E poi c’ero io.

La morte di mio nonno, che per me era l’unico padre che avessi conosciuto, fece crollare l’equilibrio instabile di una casa che ruotava attorno a lui, un austero matriarcato che gli era devoto in tutto.

Mio nonno era un omone gentile, buono. Si sarebbe fatto tagliare a pezzi per chiunque di noi.

Non si volle però far tagliare dal chirurgo, quando gli diagnosticarono un cancro già diffuso, quando le analisi di routine che l’AVIS faceva ai donatori mostrarono la malattia.

“Chi muore aperto, muore dannato”.

Morì tra le braccia di mia nonna, non ancora sessantenne, che a casa aveva tre figlie di cui una ingestibile, una suocera astiosa che l’aveva sempre disprezzata, e me.

Insieme a un lavoro che avrebbe piegato uomini più forti: per anni, da quel giorno, sarebbe scesa ogni notte da sola mentre tutti dormivano, tra i muri della casa costruita con un marito perduto di cui si era innamorata a 13 anni, a preparare il pane e i dolci che avevano imparato a fare insieme.

Dal quel giorno, tutto cambiò completamente.

La casa iniziò a invecchiare e fallire, come se anche lei si sentisse abbandonata.

Avevamo un interfono, collegato al telefono, da cui ci si poteva chiamare tra il negozio e il secondo piano a cui abitavamo.

Quando si ruppe, nessuno lo aggiustò, come nessuno aveva aggiustato mio nonno, o gli ingranaggi zoppicanti della mia famiglia irreversibilmente mutilata.

Io crescevo e diventavo più cupa, distratta, disordinata, ansiosa. Non dormivo, non parlavo e se lo facevo, argomentavo. Una bambina irritante.

Le urla nei miei confronti aumentarono, nessuno aveva tempo di fare altro, tra il contenere mia madre e portare avanti il lavoro. Le mie zie lavoravano sia in casa che fuori.

Io ero passata dall’essere una mascotte benvoluta, a nient’altro che un onere in più.

Amato, ma nel modo sbagliato, l’unico che conoscevamo.

L’interfono era rotto, così ogni richiesta e ogni rimprovero, correva nella tromba delle scale, urlato a squarciagola dal piano terra fino a me.

Giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo giorno.

Per anni, ogni volta che un clacson suonava in lontananza, drizzavo la schiena e trattenevo il respiro: a echeggiare nella testa era l’urlo del mio nome. Un latrato distorto, rimbalzato per lunghe rampe di gradini, carreggiate, decenni.

A distanza di vent’anni, se cammino stanca o assorta e qualche auto suona, succede ancora.

Cose che non dimentico

Ieri ho ripensato a una cosa che mi disse M., almeno cinque anni fa.

Ci eravamo già lasciati da un bel po’, eppure – nonostante non sia successo niente di grave tra noi – il risentimento nei miei confronti non sembra sia mai esaurito completamente.

Stavo per scrivere “mi sbaglierò”, ma stocazzo: non penso di sbagliare, checché lui ne dica.

Comunque, gli avevo voluto raccontare che una psichiatra, mi aveva prescritto un farmaco.

Si trattava di un blando psicoattivo, un SSRI, indicato per la gente a cui si impalla la serotonina. Uno stabilizzatore dell’umore.

Più o meno nello stesso periodo avevo saputo che Mondo, nel giro di amici di M., attraversava un brutto momento di down, e gli avevano dato la stessa medicina.

Mondo è uno di quelli che, già a 15 anni, potevi immaginare come cinquantenne un po’ sgradevole, con la camicia troppo aperta e niente di interessante da dire, mentre ti si avvicina con il sorriso umido, offrendoti con veemenza guance olivastre e paffute.

Non il mio genere di persona.

Anni fa, sarei stata capace di dirglielo in faccia. E non quello che ho scritto sopra: la versione non filtrata, quella che ora so sarebbe davvero, davvero troppo.

È sempre un work in progress per me, capire cosa può ferire o no.

Riconoscere di avere un problema, in parte mi salvò la vita: ero gravemente insopportabile, prima o poi qualcuno mi avrebbe presa a pugni

(una volta trovata la via tra la cortina di lacrime, probabilmente).

Rendermi conto di essere perfino meno di altri, mi rimise bruscamente al mio posto, fornendo prospettive crescenti per tutte le aspre e frammentate schegge di personalità che mi componevano.

L’unica persona di cui ero figlia, nella casa in cui vivevo, non si era mai occupata di me, tutte le altre mi impartivano lezioni in pillole, slogan e assiomi implacabili.

“Quel comportamento è da puttana”

“Luilá è un deficiente”

“Quello è uno stupido”

“Roba del genere è da poco di buono”

Non biasimo i miei familiari, hanno fatto del loro meglio e per anni ha significato beccheggiare tra l’assoluto silenzio e la totale lapidarietà:

volevano che mia madre facesse la madre in termini di oneri o onori, fino a quando sbottavano esasperati dal suo disinteresse, e cercavano di correggere il tiro delle sue assenze, vomitando sentenze.

Sentenze, è tutto quello che ho sentito per quindici anni.

Oltretutto, tendevo all’isolamento.

Se mi fossi trovata più spesso in mezzo alle persone, forse avrei capito prima che nemmeno i miei credevano fino in fondo a quello che dicevano;

invece, i miei sforzi si concentrarono sulla ricerca di giustificazioni, per cui quei fendenti avessero ottime ragioni per essere menati.

“Ok, quello è un idiota perché ha fatto così, che è inaccettabile, chi gli da ragione sarà un idiota a sua volta. Se qualcun altro farà cose simili, sarà idiota in proporzione alla somiglianza…” e mi annodavo su cose così, senza mai mettere in discussione l’assunto iniziale ma girandoci attorno e ragionando da lì in poi.

Alle superiori studiai filosofia, ma scoprii la dialettica in terza elementare.

Considerato tutto il contorno, penso non abbiano avuto altra scelta.

Sto divagando.

Insomma, quando parlai con M., lui mi ascoltò con aria di sufficienza e la bocca piegata in una smorfia di disapprovazione, poi concluse con l’unico commento che si degnò di fare a riguardo.

“Ah! Sei come Mondo! Proprio come lui!”

Scelse di ripeterlo ancora e ancora, schioccando soddisfatto le labbra con finto dispiacere, alla fine di ogni frase. Lui sì che disprezzava Mondo, a me solo antipatico.

E nient’altro.

Non un “come stai”, “ti senti bene”.

Un po’ meschino, da parte di qualcuno a cui ho succhiato il cazzo per cinque anni.

Non mi arrabbiai.

Come mio solito, le opzioni andavano dal nulla all’esagitazione e mi ritrovai dalla parte del nulla.

Essermi sentita dire da una dottoressa che ne sapeva davvero, che non funzionavo, era stata una liberazione.

Quel quasi medico davanti a me, che cercava di ferirmi con l’accostamento più umiliante che potesse trovare, nervoso al punto di parlare a scatti e gesticolare disordinato, poteva al massimo fare pietà.

Mi ricordo di aver riso, a un certo punto. D’imbarazzo, per lui.

È stata la sera in cui ho perso qualunque stima per M., e ne avevo tanta.

Mi rendo conto a oggi che, da lì in poi, tutte le volte in cui mi sono sforzata di parlarci, sono stati goffi e vani – talvolta assurdi – tentativi di rivedere la persona di cui ero stata innamorata da ragazzina.

Quella di cui avevo tanti ricordi felici.

Ancora mi fa pizzicare gli occhi, a pensarci troppo che

quel ragazzo

da nessuna parte

esista più.

Sto bene quando rido

Dr. Luke – che non ricordo come si chiami, ma so amare Star Wars – ogni tanto, segnalava qualcosa che avevo detto in precedenza.

“Questa cosa delle emozioni, interessante”.

Io non so le emozioni.

Dall’asilo ai 27 anni, ho oscillato tra l’esagitazione e il vuoto assoluto, senza vie di mezzo compatibili con le prese elettriche del resto del mondo.

Io, che piangessi o ridessi, mi sentivo allo stesso modo; quando piombavo nel nulla, dentro non c’erano sentimenti. Il dentro, non c’era.

Sui vent’anni, la differenza tra me e le persone che frequentavo, si era allargata. E io, ero sbagliata.

Non che il concetto mi turbasse: era indifferente, cadeva dalla parte del vuoto, che lo risucchiava senza batter ciglio. Ero così, pace.

Per il quieto vivere però, dovevo adattarmi.

Come facendo le costruzioni al contrario, ho iniziato a smontare i sentimenti di chi avevo intorno: l’unica strategia possibile, era imparare le emozioni degli altri e imitarle.

Ho imparato a fingere bene: tutti di me hanno sempre pensato che fossi sì sclerata, ma entro i limiti dell’accettabile.

Ho osservato, ipotizzato, provato e sbagliato per anni. Senza accorgermene mai, senza che una volta mi rendessi conto di quanto fosse continuo e snervante, lo scavare sotterraneo nelle personalità degli altri.

A 18 anni ho imparato a far ridere: prendevo i pezzi di frase di amici o di libri, a cui gli altri rispondevano, tenevo la struttura e la riapplicavo a temi diversi.

Imparare a far ridere è stato complicato.

Intanto, per il resto, peggioravo: ad un certo punto, stavo male. Avevo occhiaie sempre più profonde, capelli che cadevano, la bocca ulcerata, il cuore che batteva a cazzo di cane, dolori continui comparsi alla chetichella e accampatisi lì, e un’altra lunga sfilza di disturbi.

Preoccupandomi di stare finendo in un ammasso di dolorante e inscopabile poltiglia, ho pistolato disordinatamente fino a capire come migliorare. Figli di puttana tutti i dottori da cui sono stata inutilmente (e tanto apprezzati quelli capaci).

Il fatto, è che nel preciso istante in cui i sintomi hanno iniziato a scomparire, mi sono venute le emozioni.

Così, a sorpresa.

Camminavo con le cuffie nelle orecchie, diretta alla piazza della città, e all’improvviso le note di qualcuno, mi hanno mosso nell’addome un qualcosa. Formicolava, era tiepido, ho sorriso.

Non avevo idea del perché.

Ho dimenticato di quale canzone si trattasse, poi mi è successo con tutte le altre.

Le canzoni mi emozionavano il corpo. Erano capaci di farlo piangere, correre, accendere; io ero lì dentro e, tutto quel casino, non sapevo cosa fosse.

Quando piango, non so perché.

Ormai so collegare la causa materiale, ma piange la mia faccia e l’insieme dei suoi tubi. Io sono dentro e aspetto che l’umidità finisca di passare.

Ho imparato a decodificare le emozioni degli altri: ho parlato a lungo con persone tristi per capire come si piega la plica degli occhi e come si può lucidarli a dovere;

a forza di pacche sui denti, le mie gengive capiscono al volo quando chi parla non pensa quello che dice;

i balletti delle dita e delle mani, gli avvitamenti dei colli e dove se ne stanno i piedi sono più facili: come qualcuno si muove è esattamente cosa pensa di me. E io, in risposta, correggo la mira di ogni parola.

Mentirei, se scrivessi che non ho mai usato gli evidenti punti deboli di qualcuno come centro di un bersaglio che mi era facile centrare. Lo dico davvero: ero convinta che fosse così, che si doveva giocare.

Così, quando commentano: “È come se ci conoscessimo da sempre, come se tu fossi già stata qui” io sorrido e non so bene cosa dire. L’unica cosa che mi viene in mente, è: “Ok, l’ho fatta anche a te. Perché?”

Il vero problema, è che a forza di sfogliare gli altri, non ho imparato a leggere me.

Lo psichiatra

È alto, bello, con quelle facce di chi ti aspetteresti di incrociare passeggiando in montagna.

Ha la moto, i capelli brizzolati, un sorriso pacifico e un gran bisogno di una crema per le mani (e di pulire la tastiera del pc).

Mi ha detto che non sono matta

“Ma questo non significa che lei non sia incasinata, anzi: è quasi peggio. Rischia di perdersi”.

Per non farmi perdere, mi ha dato un altro appuntamento, di “monitoraggio” e i compiti da fare.

“Ehm, così presto? Non possiamo fare a fine marzo, che ho degli impegni in quel periodo?”

“Guardi che lei è più importante, sarebbe come dire che posticipa un trapianto di cuore perché ha già appuntamento con l’idraulico” mi ha risposto, un po’ stupito.

E ho pianto un po’, ma lui non l’ha fatta sembrare una cosa strana.