‘Sta rottura di cazzo della felicità

L’altra sera, chiacchieravo con Lalù.

“Oh ma hai visto Famoso Cuoco Salutista?”

“Chi…?”

Famoso Cuoco, quello delle ricette salutari…”

“Ah, quel mezzo cazzaro che sosteneva esistessero le prove che i latticini fanno venire il cancro? Ho presente: lui e la Ferragni mi escono di continuo nei suggerimenti Instagram e almeno lei parla solo di quello che sa”

“… Sì, va bene…”
(quando parto per la tangente, Lalù mi fa finire ma non si perde con me perché stringe il filo)
“… quindi non hai visto cos’ha fatto?”

“Noneeee, spiega”

“Ah niente: sembra abbia mollato la sua compagna e adesso stia con un tipo, nelle storie di Instagram mette un sacco di filmati di loro due”.

Ne parliamo un altro po’, poi il discorso muore lì.
Il giorno successivo, quando mi compare un’immagine del suddetto tra i post suggeriti, apro e vado a vedere e pare proprio sia così.
Avanti ancora un paio di giorni, caso vuole sia il suo compleanno e posti (lui) una vecchia foto da bambino, che io apro e di cui leggo la didascalia senza far subito caso sia sua.

Un panegirico sul fatto che i quaranta siano la decade della coscienza di sé e del capire, dato incontrovertibilmente sostenuto da studi scientifici (?), del lasciarsi finalmente alle spalle certe persone e un’altra fila di banalità olimpioniche.

Ma io dico, ti sei riprodotto tre anni fa con una tipa che era tua morosa da anni
non potevi arrivarci prima?
Che preferivi il pisello non ti aveva mai solcato i pensieri?

Banalissimamente, io m’incazzo perché m’immedesimo nella figlia.

Ma ti pare che tuo padre lasci tua madre, perché dopo tre anni dall’avvenuta fecondazione (e a pochi mesi da post melensi sulla vita famigliare) ha capito di aver trovato se stesso?
Prima dormiva?
Ma chi è, Joey Potter? Almeno nella serie TV lei aveva 16 anni.

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(Ho cercato senza successo la scena di Dawson sbronzo al proprio compleanno, che percula Joey e la sua ricerca di se stessa, guardando sotto al tavolo e dietro al divano).

Ora, al di là della critica diretta
(sìsì, ognuno ha cazzi di cui non si sa da fuori, bla bla bla, politically correct come se questi sketch fossero una nnnovità sul panorama mondiale)

la mia domanda sarà sciocca:

è legittimo anteporre la propria felicità a quella delle persone coinvolte nelle scelte compiute?

Perché, se la matematica non m’inganna, qui si è 2 – 1.

E la cinna, ora piccola e sicuramente curata attentamente da entrambi i genitori (bla bla bla politically correct) fisso che non uscirà indenne da una roba del genere.
Poi, non è che la ex compagna meriti meno solidarietà perché è adulta: passare dalla famiglia fastidiosissima di cocainomani apparenti stile pubblicità Mulino Bianco a una alla Özpetek, insomma… Non dev’essere facile.
Mica l’avevano scelta a caso, la nata sconsolata Margherita Buy.

Altro esempio: tipa nel paese di fianco al mio, che mollò il padre del proprio figlio
per il nonno.
Ma comecazzo ti viene in mente…?

Non lo so.

Capisco che chi vive il dissidio interno personale e cazzi e ammazzi, è persona a sua volta e non infallibile bla bla bla

ma a me continua a sembrare una grave ingiustizia, il continuo fare i propri comodi, a prescindere da chi lasci indietro.

Anche perché il rincorrere a tutti i costi la felicità – reso evidente che è solo della tua che ti frega – porta inevitabilmente a collezionare vittime: sono pochi i rapporti unicamente popolati da estatica gioiaCum fegna?
Cambiamo ogni volta che ci tira il culo? Passiamo la vita usando gli altri

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come serial filler?

Riempiamo i nostri vuoti con gente a caso finché ne ha, poi una volta esaurita la funzione, addio-ciaociao-aufwiedersehen-goodbye?
Boh, a me ‘ste cose fanno venire nostalgia dei tempi in cui mia nonna era vigorosa e implacabile e se non arrivava al bersaglio con lo schiaffo pedagogico, ti tirava dietro granate di coca-cola in lattina (che vendeva in bottega: munizioni infinite).

Non so: sbaglio io?
Sbaglio io nel pensare che lo scopo della vita non sia sentirsi sempre al Luna Pork e che sia da codardi del cazzo arrogarsi il diritto di rompere ogni patto, tanto si può?

Più che in altre occasioni, mi pare appropriato un: ficcatevela in culo, ‘sta cazzo di felicità.

 

Il punto con Alck

Nelle puntate precedenti: io non ne volevo più sapere, lui era un po’ spaesato ma talmente concentrato su sé che va bé, non mi sono stupita.

Se nelle prime fasi di soffocamento di un mese fa avevo mantenuto la calma, poi mi è caduta, si è frantumata e mi sono girati sul serio i coglioni.

Nelle puntate su watsapp: inviati podcast di svariati minuti fino a un massimo di sette, con una serie di robacce in fila, tutte tratte da una storia vera;
sfortunatamente, la nostra.

Nella penultima puntata: dopo una serie di messaggi incazzati – motivatissimi – scambiati per giorni, una sera ha insistito per parlare con me.

Una cosa figa di Alck è che posso dirgli più o meno qualunque cosa e non mi fa mai sentire sbagliata, quando mi ascolta.
Gran parte del problema è che non mi ascoltava più, e io non ho mai rincorso nessuno per parlare: se ti va, volentieri, se no fa lo stesso. Detesto impormi: mi vergogno. Litigo per affermare quelle che penso siano grandi verità, io resto una mezza truffa.
Nei mesi, una serie di sue pare avevano avuto la meglio, le mie ci erano andate a nozze sposando il disagio, e ci siamo trovati sconosciuti. Ore e ore passate insieme al preciso scopo di allungare distanze.

Penso sia la prima volta che, in una storia di coppia, lo sbrocco della pazienza non abbia chiuso la scena ma aperto il sipario.
Mi era già capitato, solo con amici: quelli scambiati pergrandi infatuazioni, lette male da entrambi e planate felici dove devono stare.

Trovo un po’ strano che con qualcuno tanto simile a me siamo arrivati a non sopportarci per implicita scelta, e d’altra parte ovvio e scontato. Come i finali troppo banali che ti fanno dire “Ma dai: non può davvero essere così”.
E invece.
Gli esseri umani non sono tanto originali quanto amano credersi.

Alla fine, forse, abbiamo risolto. Con la più ovvia delle strategie che un sacco di volte ci s’imbarazza a provare sul serio: troppo nudi, se si parla davvero. Più che davanti all’altro, di fronte a noi stessi. Dare voce a qualcosa che urta significa ammetterlo senza via di fuga.

Insomma, per ora è andata così: al primo riabbraccio, ho creduto poco. Sull’onda del patema ci si allarga sempre. E così per il secondo, terzo, quarto, fino al sedicesimo.
Al sedicesimo riabbraccio onesto e incerto com’era stato all’inizio e poi scappando da parti opposte non c’era stato più, ho pensato che sì: potevamo andare.

Dove non si sa e gran chissenefrega: per “affanculo” c’è sempre tempo.

Le coppie scoppiettanti

Due minuti fa leggevo un post su Pensieri Effimeri in cui si parla di una coppia in un brutto momento.

Quando ero ggggiovane, guardavo in giro tra le coppie, o guardavo a quella in cui ero io da pochi anni, e nutrivo la spocchiosa convinzione che i rapporti funzionanti fossero in qualche modo sanciti dal Fato, caduti dal cielo, o – più semplicemente – generati da un estremo grado di compatibilità

e basta.

Gran cazzata.

Ma ne ero certa, con il sussiego e la superbia di chi si crede nata imparata.

Poi ho imparato sul serio, che non avevo capito una sega.

Le coppie che ho visto navigare decadi, guadare fiumi di merda, godere l’uno dell’altra e resistere davanti a tutto, sono quelle che discutono-di-continuo.

Oh, di continuo! Specie in compagnia di amici talmente storici che qualunque aperitivo è come prenderlo in mutande nel salotto di casa tua.

Esplosioni di contrarietà

detonazioni di punti di vista

fiumi di lava e parole.

Sorpresa sorpresa: quelle coppie resistono a tutto.

Al tempo, alle tentazioni, ai momenti di buio nei quali – fisiologicamente – siamo fatti per cadere ogni tanto.

Non sono coppie nate perfette, ma in un certo senso lo sono diventate:

parlando, a volte sbottando, soprattutto ascoltando.

Se oggi dovessi descrivere cosa rende una coppia inossidabile, direi che serve piacersi molto, volersi un gran bene, ed esplodere ogni volta che serve

(oggi ho gli ormoni melensi in circolazione)

ma prima che diventi uno scoppio nucleare: quando ancora – il botto – non è troppo pieno e riesca a sembrare un fuoco d’artificio.

(O almeno che faccia cuocere i pop-corn).

Il punto delle storie

Il punto delle storie, inteso come centro, non so quale sia: ho sempre avuto una mira di merda.
Lanciavo un accendino all’amico di fronte, colpivo un ignaro passate tre vicoli più in là
lo stesso con gli accidenti
incidenti
male ai denti.

Ero di quelle, un po’ sfigate, che di puntini di sospensione preferiva usarne due.. perché dopo il terzo la frase è finita e va la maiuscola, giusto?
Non mi piacciono le maiuscole, mai stata sicura di aver finito una frase, un pensiero, una fase. Non sono sicura.
Lasciatemi stare
a porte spalancate
a poste mai inviate
che a me piacciono i termini scaduti, addii non pervenuti, i trapassati andati.

Ho cinque voci in testa, almeno.
Sono tutte mie, e anche a cranio pieno, ci sono buchi in testa
lo spazio che, se resta, nella ressa, ti fa passare avanti
schivare tra gli astanti chi mette un punto fermo.

Mi fa schifo l’inverno, col buio dentro e fuori
se cado tra i colori, mi sento più tranquilla
se tutto fuori brilla, almeno ho qualche luce
se il clima le produce, io vedo e sbaglio meglio
le scelte fatte a raglio, saltelli e asinate
un mare di merdate, disposte tutte a cazzo
e vie infilate a razzo, finendo la benzina.

Sì: sono una cretina.

And that’s all folks

L’amico penso più stretto che ho, oggi parte per qualche mese di lavoro all’estero.

Non ci siamo visti nelle ultime settimane e – come altri – è uno di quelli che è rimasto inaspettatamente con me nonostante la casuale convivenza universitaria si fosse conclusa.

Vale per lui come per Ine e Char: ex coinquiline e ora amiche per suppongo tutto il tempo che ci rimane.

Gli ho mandato un podcast di vocali, che ascolterà in volo e che non è rilevante segnarmi qui.

L’ultimo messaggio – superpippons – che gli ho scritto, però sì.

In parte perché è il mio blog e ci metto quello che mi pare (uscita reazionaria al sentirmi troppo concentrata su me stessa, quando probabilmente il problema è il contrario)

in parte perché un paio di cose riguardano timori che altri hanno sollevato parlando di terapia e cose del genere.

Here you are.

Considerazione finale:

tutta la fatica che mettevo nel cercare di attenermi a schemi non miei, mi ha rotto il cazzo e una decade ha abbondantemente dimostrato che non serve a una sega.

Non posso passare la vita a tenere imbrigliata una parte di cervello che vuole fare cose, perché funziona male quella che dovrebbe fare altre cose.

Avevo la paranoia che sistemarne una sarebbe andata a discapito dell’altra: sistemare l’efficienza sarebbe andato a discapito della mia arrancante identità. Pensavo di essere l’insieme dei miei casini, non di avere dei casini.

Non lo penso più, ora sono in incoraggiante riavvio entrambe.

Ho pensato molte volte di “stare meglio” ma era un meglio rispetto a un punto talmente basso, che persino lavarsi i capelli o arrivare al caffè senza desiderare di non esistere almeno dieci volte, poteva considerarsi un progresso.

Non è più così, e mi sento molto bene e ho tutta l’intenzione di continuare a sentirmici.

Metto in conto qualche ricaduta, sconforto e solitudine, ma ultimamente niente di tutto questo si è inghiottito giornate intere, né mi ha (completamente) tolto il sonno o le energie.

Mi sento bene, mi sento triste, mi sento stanca o carica per cose che non pensavo realisticamente di poter fare davvero. Il poco che riuscivo a concludere saltuariamente non mi rendeva mai contenta: non ero contenta di passare un esame, non ero contenta di raggiungere un risultato, non ero contenta dei lavoretti che facevo per tirare su due soldi.

Adesso è tutto molto diverso, o sono un po’ diversa io, ma insomma: in meglio.

Qualunque cosa mi faccia sentire meno di così, è qualcosa che non voglio attorno.

FINE

Comunque, mi dispiacerà, quando sarà morta.

“Scusa sai, bella, se ogni tanto suono per cercare la nonna”

dice l’arzilla scassaminchia ottuagenaria, a cui mia nonna fa mille salamelecchi per poi chiosare – chiusa la porta d’ingresso alle spalle – “du maron“.

“Tranquilla Berta” rispondo io, col tono di chi sta cagando un mattone.

EPOILORIFÀ!

Suona il campanello alle 7.15, di sabato, di domenica, per squillare – con frequenze inaudibili dall’orecchio umano: si avvertono perché mettono in vibrazione nervi e gonadi – niente di urgente nel mio cranio direttamente.

“Scusa Berta, se ti cago davanti all’ingresso” sarà la mia prossima risposta.

Ma a me hanno insegnato che non si scassa l’anima di mattino presto e alla gente in casa

e che gli anziani vanno rispettati. Anche quando non se lo meritano.

Quindi aspetto di cacarle davanti alla lapide: i miei sensi di colpa farebbero uno sforzo, ma sarebbero invogliati da poterla coprire di fiori.

Edit: post dovuto a bruschi risvegli in attesa salisse il caffè. Ora sono giunta a più miti consigli, ma resto incazzata. Più educatamente.

È un forse un bugiardo?

È forse un bugiardo, chi mente convinto di dire la verità?

SÌ madonna ladra, SÌ.

Ci tengo a te, lo sai, solo che non riesco a dimostrarlo

Beh, va a prendere ripetizioni da altre, visto che quando sono io a dirti come, te ne batti le palle.

Fine del capitolo.

Per molti, molti anni, mi sono fatta dire dagli altri cosa e come dovevo fare le cose. E poi non le facevo.

Era più forte di me: il cervello non funzionava ma dovevo corrispondere aspettative.

Tutti mi dicevano come e cose, oppure mi mollavano lì. E io tentavo e fallivo, tentavo e fallivo.

Ho fallito così tanto, che non sono più sicura mi sia mai possibile fare il contrario.

E tutti a dirmi come fare e a non ascoltare se rispondevo che così non mi riusciva.

E io a fidarmi di tutti anziché di me.

E svegliarmi con il vomito di vivere, senza una cosa che mi invogliasse a prendere un respiro.

MA-CHE-DUE-COGLIONI

Anzi, una: io.

Ho speso più energie nel disperato tentativo di assolvere al metodo che mi veniva ripetuto, che per raggiungere il risultato.

Ora, sputtanati così dieci anni, tra neuroni scollegati e sensi di colpa infiniti, mi sono anche rotta il cazzo.

Ogni volta che mi arrabbio, mi parte nel cranio la trama di un libro.

Piano: il libro grosso è il progetto che mi ha tenuta a galla per un anno e mezzo, ma ho bisogno di un tempo isolato e tranquillo per finirlo e di qualche ricerca (è un libro complicato).

In questi giorni mi è poppato nel cranio un libretto più breve, simpatico (per me). Tutt’altro.

Con il libro grosso sono piombata di nuovo nel tunnel del È-COSÌ-CHE-DOVREI-FARE.

Di nuovo: energie buttate su passaggi non miei. I miei funzionano: hanno funzionato per duecento facciate, funzioneranno ancora.

Sto-cazzo che voglio tornare a vivere così.

Ci sono cose da fare nel mondo reale, facciamole, e intanto riposiamoci scrivendo una cosa carina.

Scadenze (perché un minimo di struttura mi serve):

  • Più video sono scritti: dal 20 al 30 settembre, ne voglio registrare almeno due. Pubblicazione: prima settimana di ottobre. Se mi cagherò sotto, metterò un pannolone.
  • Libro breve: fine ottobre. Di quello ho già tutto, sotto le cento facciate, sedici seguiti già nella testa.
  • Libro lungo: quello è un casino. È una storia complicata, molto lunga, molto figa, che mi è partita nella testa come se avessi acceso Netflix dal fondo della retina. Entro fine dicembre la bozza va chiusa.
  • Checcazzo, basta annuire, fallire o scappare.
  • È tempo di fare.
  • Claire Wineland è vissuta

    Claire aveva 21 anni, la fibrosi cistica spirito da vendere.

    Ci aveva quasi lasciato le penne a 11 (setticemia, collasso polmonare etc) e, risvegliata dal coma farmacologico, iniziò a costruire una no-profit che vide la luce l’anno dei suoi 13.

    Parlava in giro, faceva video, l’ho conosciuta mentre guardavo Ted Talks, se ricordo bene ne ha fatto più di uno.

    Quando ho iniziato a pensare di fare video, è lei che mi sembrava l’esempio migliore: pochi fronzoli, idee chiare, zero editing.

    Claire parlava della malattia in modo relativamente inedito. Diceva, dei malati cronici: non possiamo aspettare che un malato inguaribile diventi sano, perché meriti di godersi la vita.

    Diceva anche che sapere di aver poco tempo, le faceva crescere l’urgenza di vivere slowly: con il tempo di gustarsela.

    E sapere di avere poco tempo è chiaro, quando vieni rianimato più volte in un pugno d’anni: non ti rimane il lusso di allontanare virtualmente il pensiero.

    Pensate che microscopico sadismo, opera la natura, con una malattia come la CF…

    le nostre cellule – più di tutte quelle che producono secrezioni – sono dotate di canali.

    Il canale che fa entrare e uscire il Cloro è molto importante per le funzioni vitali.

    La CF causa una delezione: la collanina di aminoacidi prodotta dalla manifattura nucleare, che dovrà ripiegarsi per formare il canale da inserire in membrana una volta pronto, è senza un pezzettino.

    Delta 508, delezione 508. Manca un pezzo in posizione 508.

    Così, dal nucleo, il semilavorato difettoso viene riconosciuto dai meccanismi di sicurezza della cellula.

    È rotto: niente, lo cestiniamo.

    L’ironia crudele sta nel fatto che quel preparato, pur difettoso, se riuscisse ad arrivare dal nucleo alla superficie, dalle profondità della cellula al suo confine – la membranafunzionerebbe.

    Funzionerebbe! Ma è fatto male, e il controllo qualità non lo lascia passare!

    Così, per questa sadica ironia, Claire è morta e allo stesso tempo vissuta in modo tanto impattante.

    Senza questo difetto, non avrebbe parlato in giro per il mondo e per la rete, non l’avrei seguita per anni, non avrei visto negli ultimi mesi ogni giorno qualcosa di suo, non avrei aspettato insieme a centinaia di migliaia di altre persone e con lei il suo trapianto di polmoni.

    I polmoni sono tra gli organi più rapidamente danneggiati dalla CF.

    Senza questo difetto non l’avrei “conosciuta” e tifato per lei.

    Senza uno schermo di mezzo, forse non avrei avuto scontata fiducia nel buon esito del tutto.

    Che non c’è stato: Claire ha subìto il trapianto, è andato bene, poi un infarto cerebrale l’ha spenta.

    Hanno provato per giorni di riaccenderla, ma il danno era troppo esteso e anche procedendo con la terapia intensiva, non sarebbe più stata lei.

    Le hanno staccato la spina, come aveva più volte chiarito di volere.

    È strano e insieme no: è come se a morire fosse stata un’amica.

    In conclusione (ma và: si fa per dire)

    [Ho vinto 30 giorni di ban da Facebook, FINALMENTE! (Sì: quando sono tesa per qualcosa i social mi risucchiano, ban unica soluzione)]

    Probabilmente è giusto che tutto si riduca ai suoi minimi termini: quello che non perdoniamo a noi o agli altri di passato e presente è un artefatto a cui togliere potere, un amo agganciatoci addosso doloroso da togliere ma troppo faticoso da tenersi conficcato, considerato tutto quello che negli anni gli è rimasto attaccato.

    Tutto sommato, funziona: i buchi neri dentro, tanto vale usarli come discarica. Buttarci le cose che ci rendono noi pur senza piacerci, per destinarle all’unico uso possibile. Lo spessore. In modo che diminuisca la profondità dei pozzi e – in caso di caduta accidentale – sia più facile risalire.

    I giusti e gli sbagliati possiamo sceglierli da soli, anche se è una cazzo di responsabilità gigantesca.

    Alle superiori avevo una Prof con i capelli ricci-ricci a caschetto, i denti tutti accavallati sovrastati da due occhi e un cervello che rendevano il suo sorriso tra i più belli che ho mai visto. Una che la sapeva lunga perché si vedeva che imparava sempre.

    Ricordo che un giorno ci spiegò alcune differenze tra “come si faceva una volta” e i giorni nostri:  quando il destino era già segnato o comunque le opzioni scarseggiavano e le persone avevano meno paura. I sentieri erano scritti entro confini ristretti, muri e alti e forse claustrofobici ma capaci di fornire appoggio e guida, per quanto severa;
    e non c’erano occasioni o confronti a cui badare.

    Comunque, lei non si arrabbiava mai.

    Non so da dove le venisse quella calma, cosa tenesse sotto al blocco immoto di capelli a spirale o quanti passi avessero realizzato le sue gambe lunghe e secche, interrotte da giunture un po’ nodose dentro a pantaloni stretti senza esagerare.

    Insegnava Filosofia, Pedagogia e quelle cose là, aveva circa la stessa età della Prof di Latino, una pugliese mesta e bonaria con la longuette, di cui non si capiva una parola qualunque idioma scegliesse tanto teneva bassa la voce. Messe di fianco, sembravano nipote e nonna o forse prozia: zero a che spartire, esclusa la decade di provenienza.

    L’ho incontrata di recente nel bar in cui lavora Alck e me ne sono andata pensando che vivermi sarebbe un po’ più facile se, a fine giornata, ci fosse a darmi un voto lei.

    Oggi, temo sia il giorno di rassegnarsi al fatto che lei mi abbia insegnato abbastanza.

    Primi effetti collaterali

    Ieri sera, mentre ripensavo alla questione video (li farò, ma sul “come” continuerò a cambiare idea anche dopo l’upload, quindi pace)

    declinavo a scopo “preparatorio” uno dei miei soliti monologhi allo specchio: trentacinque minuti in bagno da cui regolarmente esco dimenticando di lavarmi i denti.

    Stavo disquisendo tra me e il bidet di come siano diverse ora le emozioni – prima un continuo su e giù stile torri gemelle di Mirabilandia – e di come il pugno monco di “Ti amo” pronunciati in vita mia, non valgano più.

    Volevo bene ai disagiati a cui li ho detti, ma lo slancio e il trasporto, ora capisco, erano finti. Più che rinnegare è un “prendere atto”.

    Perché, step successivo, la mia era solo ansia di fare le cose come andavano fatte: forse in quel modo, avrei ottenuto quello che dai miei familiari è sempre mancato. L’interesse nei miei confronti, l’esistere al di fuori delle loro aspettative e fisime su di me.

    A volte mi sento ancora cretina a pormi il problema dopo tutto ‘sto tempo, eppure niente è cambiato: quando li deludo per loro smetto di esistere;

    d’altra parte, nemmeno una volta un mio familiare ha mostrato interesse per me quando facevo qualcosa che mi piacesse davvero. E non riesco a dimenticarlo.

    Zack tempo fa mi aveva fatto scegliere un ricordo per poi elaborarlo insieme, io ne ho pescato uno abbastanza plateale, perché riassumeva una parte del problema. Non è l’unico però.

    Una cazzata: ho giocato a pallavolo qualcosa come 12 anni, da quando ne avevo 6 a più avanti.

    Nessuno dei miei familiari ha visto una mia partita.

    Nessuno è venuto.

    Sono venuti ai due saggi di danza, quando ero piccola, in parte perché sarebbe stato illegale lasciarmi andare sola, in parte perché era quello che – per i canoni familiari – dovevo fare. Poi ho smesso (arrivavo là davanti e andavo via, come per il violino, come per la scuola fin dalle elementari) e il tutto è morto lì.

    Avevo libertà limitatissima – in parte ci sta – però mi hanno mollata dalla prima elementare in auto con perfetti sconosciuti per andare a partite sparse in tutta la regione senza mai una volta venire con me.

    Quando a loro piaceva l’attività, ero la nipotina bella & intelligente, quando l’attività era noiosa “ah ma non è mica mia figlia“.

    Mi viene da piangere a dirlo, mi viene da piangere a scriverlo. Mi vergogno a sentire gli occhi che pizzicano per una cazzata del genere. Però ho appannato comunque gli occhiali.

    Insomma: tante volte ho cercato disperatamente di trovare un modo perché agli altri interessasse di me. Tralascio tutto un capitolo infinito su come, le volte in cui ci sono riuscita, regolarmente sono impazzita, suppongo per aver mosso un coperchio di piombo che schiacciava una frustrazione troppo grande, per essere punzecchiata da facezie così.

    Dunque, avanti ancora, ostinarsi a cercare attenzione da chi sai non te la vorrà mai dare è un’eterna condizione a cui io sola mi condanno e insieme e l’unico modo che conosco per sentire un legame verso qualcuno.

    Improvvisamente, e davvero non avrei voluto, mi è poppato in mente Alck. Che, per la fila di questioni sue, di cui ho già detto non spiegherò i dettagli qui, fatica ad accettare l’esistenza di qualcuno che non sia in funzione di lui stesso.

    Mi sono sentita triste.

    Perché – salto mille passaggi di ulteriori botte e risposte tra me e lo scaldabagno – lui è così, una parte troppo grande di quello che mi ha coinvolta di lui, pesca da lì.

    E una cosa del genere, io non la voglio più. In teoria.

    Nelle scorse settimane, l’arrabbiatura (sana) nei suoi confronti l’avevo placata ragionando su come fosse la sua prima volta nel mettere a fuoco e vocalizzare le paturnie che teneva sedate dentro di sé.

    Mi fido di lui e so che – in ogni caso – non sarà mai volontario il farmi del male (relativo) o trattarmi di merda (sotterraneo)

    però, voluto o meno, lo rifarà.

    Adesso – step ancora – ho capito perché Alck non piace al mio Protettore Distaccato: vede solo se stesso.

    E – secondo la teoria degli schemi – il Protettore Distaccato è lì al dichiarato scopo di allontanare le fonti di dolore. Ha già il suo bel da fare con tutto quel passato, figuriamoci se deve mettersi a difendermi da qualcuno che è appena arrivato.

    Qualcuno che vede solo se stesso e me in funzione di lui, è esattamente il problema attorno a cui ho perso senno ed energie per tutta la vita.

    D’altra parte (qui i rimbalzi tra me e il bicchiere degli spazzolini li segno tutti), ci tengo ad Alck e non è che questi mesi siano stati una sequela di drammi, no.

    Ma nemmeno sono stati granché. Mi sono sentita molto sola.

    E sì, abbiamo finalmente iniziato a parlare e a conoscerci, ma una cosa tanto difficile vale la pena ostinarsi a edificarla?

    Da un lato penso di sì: l’ho già scritto qui

    ma tra i due estremi del filo conduttore, non so dove mi trovo:

    per qualcuno a cui si tiene vale la pena mettersi lì e lavorarci insieme

    o è l’ennesimo fondo perduto in cui sputtanare mesi o anni?

    Qual è il limite del sano o ragionevole e dove inizia il patologico?

    Cosa sia sano e cosa no, non mi toglie il sonno, ma sono domande frequenti anche per altri argomenti. Penso dipenda dall’essere discontinua con la terapia – questione di orari – e passare periodi relativamente lunghi con i lavori a metà: i cavi scoperti dissipano di più.

    E le mie parti non sono ancora fuse bene, tipo un impasto pieno di grumi.

    A voi capita mai di essere sequestrati da un succedersi di pensieri?

    Io non so cosa ascoltare.