Ah, comunque, argomento “Scrittura”

Il capitolo 2 è stato IL male ma il verso lo ha trovato;

il capitolo 3 ci è andato vicino ma ogni dubbio sull’identità dei miei personaggi è stato fugato.

Ci siamo conosciuti meglio, con calma. Infatti c’erano momenti in cui avevo piazzato cose a caso, che stonavano, perché non eravamo abbastanza in confidenza per sapere cos’avremmo fatto in momenti privati, solitari, isolati. Non ci stiamo per forza simpaticissimi, ma ci siamo detti quasi tutto.

Scrivere fantascienza (bene o male, brutta o bella che uscirà) è un’esperienza strana, se la realtà non è il tuo forte. Credo: non ho metri di paragone, ovviamente.

Però mi fa ridere come, alle domande sulla storia, io conosca le risposte anche se non ci avevo ancora mai pensato, mentre per l’interlocutore è sempre un “Ma come fai a farti viaggi così…?”

Non li faccio: io li ospito, e ogni tanto salgo a bordo.

Spigolate

Ho appena scaricato l’estratto di un romanzo di Marina di Guardo, la madre della Ferragni, per curiosità. È talmente banale ed elementare da suscitarmi un nervoso quasi pari alla lettura di un giornale. Vabbè.

Non ho cose interessanti da dire, se non che le lezioni di Psichiatria che sto leggendo sembrano la mia biografia. Ma non solo mia: dell’albero genealogico. Molto divertente, specie perché – nelle parti sui disturbi pertinenti – sono ferratissima: avevo indovinato perfettamente la descrizione delle manifestazioni patologiche.

La cosa interessante di una buona fetta dei disturbi mentali relativamente frequenti (i più frequenti sono ansia e depressione, figli della nostra epoca come l’ormai scomparsa “Isteria” era figlia del primo ‘900) è che fanno male solo a chi sta intorno a chi ce li ha.

(Il soprastante paragrafo, zero curato e colloquiale, è da Nobel per la letteratura se comparato ai libri della donna succitata).

Ci sono persone che vengono definite “malate” ma lo sono solo rispetto al contesto; il socio-culturale ok, lo capisco che possa aprire un dibattito nei confronti della definizione stessa di “Malattia” ma anche di “Salute”, anche se – OMS dixit – l’abilità di integrarsi funzionalmente nel proprio ambiente è contemplata in entrambe. Resta il fatto che le definizioni sono etichette arbitrarie appioppate (più o meno sensatamente) a dinamiche complesse, quindi vanno prese con un’alzata di spalle e una lunga serie di considerazioni successive. Alcune vanno nemmeno prese: dito medio e a mai più.

Sono i disturbi della personalità – di cui in famiglia facciamo la collezione – a divertirmi, quando li leggo spiegati a chi non ne ha mai fatto esperienza. Depersonalizzazione (estraneità a, straniamento rispetto se stessi) e derealizzazione (sensazione di guardare la realtà che si riesce a carpire da un punto esterno, essenzialmente) io potrei pure farli aggiungere alla carta d’identità, ma tanti sanno cosa sono, tanti ne fanno esperienza in momento di grande dolore, di forte confusione. Per me sono normali e prendo misura (per quel che posso), ma dubito siano concetti semplici da cogliere davvero, come è difficile capire l’amnesia pur avendone provata quasi tutti una alcolica.

Lo capisco che il contesto sia necessario alle definizioni sull’individuo, perché siamo animali che non possono prescindere, però lo trovo filosoficamente e praticamente scorretto. Credo mi dia tanto fastidio, questo aspetto, perché esistono troppe varianti. Molte varianti sono più o meno compatibili tra loro. È un po’ come elaborare menu che contemplino maiale e pesche: le combinazioni di successo sarebbero tantissime, come lo sarebbero quelle terribili.

Non mi piace la vaghezza: io sono vaga e mi piace quando attorno le cose stanno ferme.

Come vi vanno questi tempi di regioni colorate e coglioni farciti?

Ieri sera ho bevuto due bicchieri di vino e sono ancora provata. Meglio: posso dare la colpa alla cantina Negraro, senza scomodare Freud.