Questo nuovo straccio di vita è iniziato così.
Un mercoledì di fine agosto cazzeggiavo al bar con Zia G., la zia giovane, la zia gnocca, la zia che (come l’altra del resto) non ho mai chiamato con titoli parentali. Ogni volta che prendiamo un caffè diciamo “Ma solo un’ora eh” e ne partono dalle cinque alle tre.
Quel mercoledì la zia sciantosa arrotolava i ricci tra indice e medio e mi raccontava cose, tra le quali:
“Ma lo sai che Amica P cerca personale e fa fatica a trovare?”
Amica P è un personaggio notevole. Amica di sempre di Zia G (ora sono entrambe sulla cinquantina), tormentata, incasinata, venditrice nata, alle volte inaffidabile – le tirò una mossa di merda poco un lustro fa, per cui non si parlarono anni, finché le lusinghe di Amica P ottennero dal cuore troppo tenero della riccioluta Zia G quello che volevano. Amica P è letteralmente una forza della natura, mi conosce da sempre e condivide con entrambe quella forma d’animo che non saprei come chiamare, ma che allinea persone divergenti su ogni altro aspetto dell’esistenza.
Quindi, di getto, ho mandato un messaggio ad Amica P, perché il mio cervello va a random e magari l’università prima o poi la finirà, ma aveva voglia di lavorare. E io abbastanza bisogno di ingessi più stabili, dopo una pandemia passata a dare fondo a risparmi; un lusso non per tutti, anche se la scelta è stata percorsa nella massima frugalità.
Amica P mi ha risposto il giorno dopo, con un “Certo: cominci da lunedì un part time verticale”, e io non avevo idea di cosa avrei cominciato, lasciando stare la definizione stessa di part time verticale, che – per quanto ne sapevo – avrebbe potuto essere un pugno di ore a fare prove di ginnastica artistica. Sapevo solo che lei ha una ditta di pulizie e mansioni miste. Beh, l’ho imparato presto.
Nel giro di tre giorni mi sono trovata catapultata in una fabbrica di biscotti (luogo ostico per chi, come me, inizia a breve il percorso diagnostico per celiachia). Dire “Catapultata” poi riguarda solo il senso di straniamento, perché l’ingresso fisico non è stato semplicissimo: provate voi a suonare il campanello di uno stabilimento che produce a ciclo continuo, con un casino infernale costante che avvolge macchine e lavoratori.
Comunque, non lo avevo detto ad Alck del messaggio che avevo mandato, prima di sapere che avrei cominciato. Gli ho comunicato la cosa ad accordi presi, perché non volevo che mi facesse cambiare idea, che mi mettesse dubbi, incertezze, e che – come è sempre accaduto – smontasse ogni mio entusiasmo.
Nell’ultimo anno con lui non ho scritto, non ho quasi lavorato, ho pochissimo studiato. Non è colpa sua, non è mai stata una sua responsabilità fare cose al posto mio o badare a me. Però non mi ha neanche aiutata quando gli spiegavo che mi serviva sostengo, o partecipato a qualunque cosa io volessi fare per ricaricare la mente (tipo giocare a racchettoni in giardino, letteralmente; non si parla di scalare il Monte Bianco). Ed è stato un mio errore dare priorità a quello che pensavo di dover fare, perché “da grandi” si fa così, perché la terapia l’ho iniziata per caso mentre iniziavo a uscire con lui e forse l’ho collegato a un senso di “Guarigione” generale, quando la stragrande maggioranza delle mie disfunzionalità dipende dal fatto che (come moltissimi) io non sono fatta per funzionare secondo le prassi più diffuse e attese nel nostro sistema. Io funziono se faccio come sento di dover fare, incastrandomi solo dove strettamente necessario con il meccanismo generale, o compensando quello che mi manca con quello che mi viene meglio.
E non sapevo di poterlo fare, perché mi hanno sempre detto che le cose non funzionano così. E chi me lo diceva funziona, meglio di me almeno. Quindi chi potevo pensare di essere io, per dire l’opposto?
Beh, alla fine sembra che io sia questa qui, e che funzioni molto meglio quando seguo quello a cui punta il mio cervello bacato. Forse l’aria che entra dai buchi aiuta, non lo so.
Sta di fatto che io sono chi sono fatta per essere, perché non ho alternative e perché non ne voglio. Io vado benissimo cosi.