Come sono entrata nella fabbrica

Mi rode scrivere di situazioni del tempo in cui c’era ancora Alck, soprattutto in questi giorni, perché negli ultimi due ci ho litigato. Io: non “Abbiamo” litigato, l’ho fatto da sola, come la gran parte delle cose mentre stavo con lui. Bella merda.

Comunque, quella mattina presto di foschia estiva, in cui il mio difetto d’attenzione mi aveva regalato la solita mirabolante esperienza di sentirmi a Narnia pur trovandomi semplicemente in una culandia qualunque appena sotto al Po, arrivo davanti allo stabilimento con il pathos di un’Indiana Jones scampata al Tempio Maledetto

parcheggio a bordo strada, tra la carreggiata e una discarica di pneumatici, sentendomi una consumata avventuriera e ricordando al furgoncino di fare il bravo in mia assenza, che era un attimo finire lì

suono il campanello con 10 decorosi minuti d’anticipo… suono un’altra volta, e poi ancora

non mi caga nessuno. Panico.

Corro attorno al cancello, ma non so dove perché è l’unica entrata di cui sono a conoscenza, sudo, suono di nuovo, salgo sul cancello e stendo il collo oltre. Nessuno. Ripeto il procedimento quattro volte, magari scatta l’incantesimo.

Suono ancora, urlo, ma il clangore e lo sferragliare che smaniano dalle porticine del grande prefabbricato, aperte per dissipare l’afa della notte estiva, mi fanno un dito medio: cosa potrà mai un misero “Buzzzzzz” contro l’armata spaccatimpani? (Allora cazzo lo mettete a fare…? Ma Vabé).

C’è troppo rumore, nessuno sente ‘na sega.

Poi, a un certo punto, l’eroico “Buzzzzz” scatta un’ultima volta dal campanello lungo il filo, scarta la scarica di frastuono che invade l’interno, subito prima che le macchine ricarichino le munizioni, e arriva alle orecchie giuste.

Se non ne hai mai frequentata una, la fabbrica è un posto strano. È rumorosa, massiccia; anche lenta e cadente, se lo stabilimento è vecchio come quello che dico io. Sembra un guscio sottile per il dinosauro semi infermo e lamentoso, il quale sembra starci molto scomodo.

Ovviamente parlo della fabbrica come una consumata operaia, in base al principio per cui ci si sente molto più esperti di qualunque cosa dopo una sola esperienza che dopo l’ennesima.

Un po’ mi mancherà, mi sono licenziata dieci minuti fa.

(Non mi ricordo cosa c’entrasse Alck, ho iniziato questo post mesi fa e poi boh, ma sticazzi).

Seguito

(Per fortuna posso fingere di essere stesa dalla terza dose oggi).

Dicevo, non avevo avvisato Alck del nuovo lavoro, per i perché e i percome già visti. La cosa non gli ha fatto piacere, ma ovviamente non lo ha rimarcato perché tra me e lui una vera confidenza si instaurava solo nei momenti delle grandi discussioni e poi scemava nella quotidianità, riportandoci all’educata condizione di semiestranei che si baciano spesso. Comunque neanche a me aveva fatto piacere, tre anni fa, che lui rifiutasse una proposta di lavoro per conto mio, quando una sua collega gli aveva chiesto di riportarmela. Durante una delle discussioni finali gliel’ho ricordato, perché era stato un brutto gesto. Lui nemmeno se lo ricordava.

(Da quando ho cominciato questa bozza sono passati credo quattordici giorni, incluso il Natale).

(E quasi un mese e una ripresa di psicoterapia ulteriore).

Nonostante siano passati pochi mesi, da quei giorni, non riesco a ricordare le date o gli eventi. Ricordo solo che ero contenta, stanca, frustrata da Alck e dalla mia incapacità di fare le cose che – fino a quello che mi sembrava il tempo di uno starnuto prima – avevo amato. Scrivere, soprattutto.

Ora, quel lavoro (lo stesso che faccio adesso), è strano. Nonostante da qualche settimana mi ritrovi sempre nella solita fabbrica, che è una grossa cliente e con un’amministrazione un po’ confusa e un sacco di gente a casa causa Covid, in genere posso trovarmi a fare di tutto e ovunque (in un ragionevole raggio).

Dallo scorso agosto ho tolto moquette (e colla sottostante, un incubo al metro quadro), scaricato rimorchi, rimosso un favo di calabroni del tutto ignara del livello potenziale di letalità, trovato lavoratori, visitato cantieri, pulito la stessa fabbrica – in gran parte da sola, perdendo la sensibilità a mezzo piede destro – accompagnato gente a lavorare, pulito giardini e potato siepi, e probabilmente dimenticato qualcosa.

Più di tutto, ho ricominciato a trovare quello che avevo perso.

Il giorno prima dell’inizio (perché il primo lavoro è stato alla fabbrica di biscotti che mi sequestrerà di nuovo tra qualche ora), Alck mi ha portata a vedere dove fosse, per essere sicura di trovarla facilmente. L’idea di andarci da sola un po’ mi spaventava: non ero abituata a guidare, non avendo un’auto mia. Per anni ero stata l’autista sobria di diverse serate, proprio perché non avendo l’auto ricambiavo gli eterni passaggi lasciando bere qualcosa a chi ce la metteva sempre, ma l’anno e mezzo di Covid mi aveva tenuta a casa, e l’anno e mezzo precedente mi aveva tenuta a casa Alck. E comunque gli amici con cui uscivo di solito si erano tutti sparsi agli angoli del pianeta, o dell’Italia, quindi c’era poco da stare sobri ai ritorni.

Comunque, la mattina in cui dovevo mi sono avviata, sullo scassato furgoncino messo a disposizione da Amica P, e ho raggiunto senza problemi (ma vari momenti di smarrimento nonostante il percorso praticamente obbligato: “Oddio, sono assolutamente certa che di qui non siamo mi passati, arriverò a Berlino anziché a lavoro!”) il posto.

I problemi sono cominciati quando, messo giù il furgoncino, mi sono resa conto che era praticamente impossibile entrare.

No buono

Questo nuovo straccio di vita è iniziato così.

Un mercoledì di fine agosto cazzeggiavo al bar con Zia G., la zia giovane, la zia gnocca, la zia che (come l’altra del resto) non ho mai chiamato con titoli parentali. Ogni volta che prendiamo un caffè diciamo “Ma solo un’ora eh” e ne partono dalle cinque alle tre.

Quel mercoledì la zia sciantosa arrotolava i ricci tra indice e medio e mi raccontava cose, tra le quali:

“Ma lo sai che Amica P cerca personale e fa fatica a trovare?”

Amica P è un personaggio notevole. Amica di sempre di Zia G (ora sono entrambe sulla cinquantina), tormentata, incasinata, venditrice nata, alle volte inaffidabile – le tirò una mossa di merda poco un lustro fa, per cui non si parlarono anni, finché le lusinghe di Amica P ottennero dal cuore troppo tenero della riccioluta Zia G quello che volevano. Amica P è letteralmente una forza della natura, mi conosce da sempre e condivide con entrambe quella forma d’animo che non saprei come chiamare, ma che allinea persone divergenti su ogni altro aspetto dell’esistenza.

Quindi, di getto, ho mandato un messaggio ad Amica P, perché il mio cervello va a random e magari l’università prima o poi la finirà, ma aveva voglia di lavorare. E io abbastanza bisogno di ingessi più stabili, dopo una pandemia passata a dare fondo a risparmi; un lusso non per tutti, anche se la scelta è stata percorsa nella massima frugalità.

Amica P mi ha risposto il giorno dopo, con un “Certo: cominci da lunedì un part time verticale”, e io non avevo idea di cosa avrei cominciato, lasciando stare la definizione stessa di part time verticale, che – per quanto ne sapevo – avrebbe potuto essere un pugno di ore a fare prove di ginnastica artistica. Sapevo solo che lei ha una ditta di pulizie e mansioni miste. Beh, l’ho imparato presto.

Nel giro di tre giorni mi sono trovata catapultata in una fabbrica di biscotti (luogo ostico per chi, come me, inizia a breve il percorso diagnostico per celiachia). Dire “Catapultata” poi riguarda solo il senso di straniamento, perché l’ingresso fisico non è stato semplicissimo: provate voi a suonare il campanello di uno stabilimento che produce a ciclo continuo, con un casino infernale costante che avvolge macchine e lavoratori.

Comunque, non lo avevo detto ad Alck del messaggio che avevo mandato, prima di sapere che avrei cominciato. Gli ho comunicato la cosa ad accordi presi, perché non volevo che mi facesse cambiare idea, che mi mettesse dubbi, incertezze, e che – come è sempre accaduto – smontasse ogni mio entusiasmo.

Nell’ultimo anno con lui non ho scritto, non ho quasi lavorato, ho pochissimo studiato. Non è colpa sua, non è mai stata una sua responsabilità fare cose al posto mio o badare a me. Però non mi ha neanche aiutata quando gli spiegavo che mi serviva sostengo, o partecipato a qualunque cosa io volessi fare per ricaricare la mente (tipo giocare a racchettoni in giardino, letteralmente; non si parla di scalare il Monte Bianco). Ed è stato un mio errore dare priorità a quello che pensavo di dover fare, perché “da grandi” si fa così, perché la terapia l’ho iniziata per caso mentre iniziavo a uscire con lui e forse l’ho collegato a un senso di “Guarigione” generale, quando la stragrande maggioranza delle mie disfunzionalità dipende dal fatto che (come moltissimi) io non sono fatta per funzionare secondo le prassi più diffuse e attese nel nostro sistema. Io funziono se faccio come sento di dover fare, incastrandomi solo dove strettamente necessario con il meccanismo generale, o compensando quello che mi manca con quello che mi viene meglio.

E non sapevo di poterlo fare, perché mi hanno sempre detto che le cose non funzionano così. E chi me lo diceva funziona, meglio di me almeno. Quindi chi potevo pensare di essere io, per dire l’opposto?

Beh, alla fine sembra che io sia questa qui, e che funzioni molto meglio quando seguo quello a cui punta il mio cervello bacato. Forse l’aria che entra dai buchi aiuta, non lo so.

Sta di fatto che io sono chi sono fatta per essere, perché non ho alternative e perché non ne voglio. Io vado benissimo cosi.

Che grande inculata la nostalgia

Madonna, sono in quella fase a dondolo tra disprezzo intenso e nostalgia totale.

Mi manca Alck. E per articolare il pensiero ho bisogno di una sigaretta e di una doccia, poi potrò riprendere a scrivere.

No, niente doccia, chissenefrega.

Non era sufficiente farmi vivere mesta per anni, prosciugata dalla fatica di digerire lo stare con lui, senza scrivere, sempre stordita, sempre in allerta. No.

Mi lascio da sola, perché figurati: a lui andava benissimo continuare a ignorarmi, poi lui comincia esattamente quello che io avevo disperatamente desiderato facesse tutto questo tempo, e subito dopo smette di parlarmi. Mi sarei sentita meno tradita se lo avessi colto nell’atto di trombare mia madre.

Per ogni cosa che mi fa pensare “Ho fatto la scelta giusta” mi vengono in mente due o tremila cose che mi mancano. Eppure, ero talmente infelice da non poter essere niente. Che cosa strana l’allontanarsi.

Comunque, ieri ho provato a chiamare l’Agenzia delle Entrate e non mi hanno cacata di striscio. Ritenterò, ma direttamente alla loro porta. Il resto delle cose che dovevo fare l’ho fatto.

Oggi vorrei correre, passare in ufficio e lavorare un paio d’ore, poi scrivere un po’. Nel mezzo, ridurre la pila di piatti accumulati nella mia piccola cucina di recupero, e magari finire le lavatrici.

Ah, ma prima FINIRE IL QUESTIONARIO PER LA DIAGNOSI DI ADHD.

Ho troppe cose da raccontare, escluso Alck… da dove comincio?

Cominciamo

Mi sto lavando i denti. Sono dieci minuti alle undici di mattina, ho già cazzeggiato troppo, fatto la doccia (con il pigmento di rosa cafonissimo che mi sono piazzata in testa che ancora mi gocciola sul naso), incrociato un video YouTube sul canone Rai che io manco dovrei pagare e sono 3 anni che mi dico “Adesso lo faccio togliere dalla bolletta”.

Ho anche richiesto il passaporto 2 anni fa ed è ancora in questura, ma non ce ne occuperemo oggi.

Oggi devo chiamare l’Agenzia delle Entrate e chiedere questa cosa del canone.

E fare qualche storia sull’account Instagram della mia titolare (beh, della sua azienda, in cui io lavoro decisamente troppo). È più di un mese che rimando.

Magari lavare due piatti, ma non esageriamo con l’ambizione.

Devo fare queste cose e uscire di casa al massimo alle 13.10 per un turno che terminerà alle 22.00. Non ho raccontato niente di questo lavoro mi sa, e dovrei, perché a me diverte moltissimo.

Ma adesso mi asciugo e provo di concludere qualcosa.

Il mio cervello è una distesa di figurine scompagnate da vecchi album mai completati

Alck non mi parla più da qualche settimana, nel senso che non risponde ai miei messaggi, nonostante fossimo rimasti d’accordo di mantenere i contatti. “Mi fa stare troppo male”, aveva poi rescisso lui. Ma vedi un po’ di andartene affanculo. Le solite minchiate. Mentre io mi odio perché avrei proprio bisogno di parlare con lui, dato che la mia colonna vertebrale sembra fare bizze diffuse.

“Bene, lei lamenta una mancanza di sensibilità alla pianta del piede destro, ma le sue braccia sembrano stare molto peggio delle sue gambe… che interessante!”

“Grazie Dottoressa, modestamente non è la prima neurologa che me lo dice”.

Io per anni sono stata quasi esclusivamente con Alck (intendo proprio come quantità totale di tempo), con chi dovrei avvertire il bisogno di parlare di questa cosa, oggi che mi sono un po’ spaventata, mentre aspetto la risonanza “Urgente” a febbraio?

Il fatto che lui non se ne sia preoccupato minimamente, sapendo che potrebbe essere un nonnulla come una roba orribile (più tutte le sfumature nel mezzo, tendenti a infinito), mi fa davvero arrabbiare. Vabé.

Ma è inutile pensare a lui, averlo come sottofondo ai pensieri, perché è sempre stato un rapporto a senso unico e partecipante solitario. Però mi dava la – a tratti controproducente – percezione di non essere sola.

Io, da sola, mi perdo. Mi sciolgo nel tempo tra le lancette, divago dieci minuti e sono passate quattro ore. Fatico a tenere il passo, spesso, e nel restante tempo sclero e recupero 3-4 giorni in due, ma degli altri resto indietro. Mi serve una forma di disciplina.

Si può usare un blog, per questo? Si può scrivere online giocando al diario per dire ad alta voce quello che vorresti che qualcuno ti aiutasse a ricordare di fare il giorno dopo? Non lo so, ma penso mi tocchi provare. Anche perché il canone e il passaporto non sono questioni che si risolveranno da sole.

Solite lamentele di quando ci si lascia

Mi fa ridere che, quando riavvio il telefono, poi la schermata si fermi sul blocco “tasti”, con nell’angolino in alto a sinistra un lapidario “SIM bloccata”. Cos’è, ti sei offeso perché ti ho spento e riacceso, che non mi offri il tastierino?

Vabé, a me fanno ridere queste cose qua.

Devo andare avanti con la mia vita, e la prospettiva mi sta in culo in un modo che non potete capire.

A me stagnare andava benissimo. Gran parte dei miei problemi era dovuto al fatto che non andasse bene ad altri, che mi macerassi costantemente in un passato che ogni giorno aumentava di volume, senza mai buttare l’occhio in avanti.

Ci vuole un po’ lo smaliziarsi che viene dal prendersi più sul serio, per capire che – a volte – quello che considerano sintomo di un disturbo mentale, non lo è.

“Lei non ha visione del futuro”. Me lo hanno detto quei due o trenta specialisti. No visione del futuro corrisponde (considerando anche il resto dell’anamnesi, chiaro) a depressione. E posso dire che sono d’accordo fino a un certo punto?

Nel senso: ok, per l’accezione comune ci sta, però non siamo tutti fatti esattamente con lo stampino. A me piace camminare in avanti, girata all’indietro. E poi, se non fossimo tutti su un tapis roulant di fogli di calendario, starei anche ferma, tanto basta una fetta di passato davvero magra per usare una vita a digerirla.

Comunque, mi è toccato fare due salti in avanti: a forza di stare fermi (e un po’ nascosti, perché gli altri sono un po’ una rottura di coglioni dato che vogliono una cifra di spiegazioni su cose che proprio non li riguardano)

ho trovato un lavoro strano, malissimo pagato, divertente, faticosissimo, multiplo

ho ri-lasciato Alck, che poi in realtà lui ha lasciato me, nel senso che io continuavo a cercare di parlare, lui continuava a promettere che le cose sarebbero migliorate, poi si accendeva un’altra canna e la tv, per la solita maratona di niente serale. O pomeridiana, se non aveva incombenze inevitabili. O mattutina, se nel giorno libero non aveva qualcosa da fare.

Gliel’avevo detto che avrebbe potuto essergli utile la terapia con Zack, il mio vecchio terapista (da cui tornerò, vorrei smettere di fumare), avevo rispiegato pazientemente, a ogni suo rimbecco astioso “Beh vado lì, gli mollo centinaia di euro e lui mi dice cosa dovrei fare, GRAZIE LO SO DA SOLO” che la terapia non è una serie di consigli da rubrica di rivista. Gli avevo chiesto di ridurre quelle cazzo di canne, che lo rincoglionivano (e che finivo per fumare anche io, solo di sera, ma rincoglionendomi comunque troppe ore) ma lui rispondeva che non era vero che si rincoglioniva. “Sì che è vero, solo che quello rincoglionito sei tu e non te ne accorgi. E poi il consumo cronico non lascia tempo al tuo corpo per recuperare, dovresti fare qualche giorno senza”.

Io lo sapevo che lui ha un problema di ansia, e le canne servivano per sedarsi e andare avanti. Ma lui no, non lo sapeva e difendeva con le unghie e coi denti l’unica strategia che aveva familiare per andare avanti.

Quando finivo con l’arrabbiarmi alzava le antenne e prometteva, con estrema sincerità, che si sarebbe impegnato in questo senso: fumarne una in meno, parlare di più con me.

La farò breve: tutte cazzate, mai fatto

TRANNE

ORA!

Quel figlio della merda ha smesso di fumare dopo che io, al limite, me ne sono andata guastissima da casa sua con la mia roba…

(passavo lì circa quattro-cinque giorni a settimana ma non potevamo convivere perché a lui prendeva male l’idea di spostare le audiocassette del 1994 del mobile in mansarda per far spazio a cose mie, quindi io dovevo pagare un affitto e andare costantemente avanti indietro a casa sua dopo che alla discussione epica dell’estate scorsa lui si era lamentato che non avessi un lavoro fisso e che quindi non potessimo convivere per quello, ma vaffanculo

… e ha iniziato ad andare in terapia, decidendo nel contempo che non dovevamo più sentirci.

Devo andare in farmacia a vedere se posso prenotare due risonanze ora, perché – nel frattempo – non sento più mezzo piede da qualche settimana e vorrei avere sue notizie.

A volte per riflettere ci metto qualche anno

Ma alla fine a chi importa?

Nel senso, potremo essere liberi di pensare e rimuginare quanto ci pare? ‘Ste scadenze maleducate chi le ha dettate? Non ho mai sopportato i tempi, seguo solo quelli verbali e poi e poi.

Tutti ‘sti bandoli delle matasse, per quanto mi riguarda possono andare a cagare. State dove siete, io mica sono qua per riordinare fili a caso.

Mi piacerebbe avere un punto da cui partire a estrarre la fune d’argano che ho annodata nel cranio, quello sì, ma serve farmi un buco, e i buchi fanno male.

Magari rimango a pensare alle storie degli altri, che onestamente trovo consolanti: in positivo o negativo, almeno NON È SUCCESSO A ME. E il “non” è tutto quello che voglio adesso. Grazie.

È stato un lungo inverno

Il tempo dei mesi scorsi mi stava appiccicato su ogni pezzo di pelle come una guaina plastica. Non respiro da più di un anno, per farla drammatica. Per farla realistica, è da prima della pandemia che mi è partito un senso di costruzione polmonare che mi lascia raramente. Come se i polmoni non volessero allargarsi, offesi da chissà quale delle troppe sigarette.

Sono andata dalla mia dottoressa, che è un tipo spiccio. Mi ha auscultata e proposto un ex adiuvantibus: dato che sospettava fosse ansia, provare una benzodiazepina (classe di farmaci che si usa contro l’ansia) per vedere se il sintomo regrediva. “Ex adiuvantibus” vuol dire “beneficio a posteriori” (forse non letteralmente, non ricordo il Latino, ma il senso è quello) ed è un sistema di verifica efficace, specie se non è il momento di farsi visitare in ospedale potendolo evitare.

Lo raccontavo alla G., mamma di un’amica, psichiatra in pensione, durante un caffè che abbiamo preso quando la zona era gialla.

“Ah è anche la mia dottoressa” mi ha detto. E abbiamo parlato di quanto fossero frequenti i sintomi fisici da ansia, perché ora si sa – anche se non è noto al grande pubblico – che l’ansia è proprio una questione di eccitabilità nervosa: i nervi sono iperattivi, iper reattivi e per nulla accomodanti. Tanta gente gira medici su medici quando il problema di fondo è l’ansia (e comunque fa bene a controllare che non si sa mai, ma dopo più di un controllo negativo andrebbe presa in considerazione).

“E com’è andata?” mi ha chiesto, in riferimento alla regressione del sintomo.

“Non lo so: mi è venuta la diarrea e non ci ho più pensato”

“Ma è un effetto collaterale rarissimo”

“Ed è difficilissimo farla in apnea”.

Comunque la mia saturazione va bene e riesco a correre, quando sono libera dal cesso, quindi tutto nella norma.

Un’effetto collaterale della psicoterapia però non lo avevo ponderato, non me lo aspettavo

e lo lascio in sospeso da dire domani, perché voglio un motivo, un La per tornare.

Per 16 anni ho guardato la mia bisnonna superstite fissare lo schermo della televisione nelle sue lunghe serate solitarie. Non capivo come fosse riuscita a sopravvivere ad aver sepolto il marito ed entrambi i figli tanti anni prima, andando avanti. Non capivo il senso della sua vita solitaria, mentre trascorrevo le giornate nascondendomi da tutti, svicolando da una stanza all’altra.

La casa era vecchia e moderna per l’epoca: una di quelle appiccicata (solo da un lato) a quelle di fianco (l’altro fianco era libero, coperto solo alla strada da un enorme portale di legno che dava accesso al sistema di cortili interni che non ci riguardava, da bambina ci buttavo cose, prima di capire che se le lanciavo dalla finestra, sotto sarebbero rimaste). Sul lato libero, un freddo maiale. Tra il forno a piano terra, la bisnonna al primo, noi (nonna, madre, zie e nonno finché c’è stato) al secondo, la soffitta al terzo; di posti per nascondermi ne avevo.

Ora che sono qui, a dirmi per l’ennesima volta che devo accettarlo: “Ho passato più tempo a ripetermi che certe cose bisognava volerle per forza, sprecato più energia a convincermene che altro”, realizzo che io ho sempre voluto stare sola. Oppure: è la condizione che mi è più congeniale. Ho accarezzato l’alcolismo per dieci anni, solo per tollerare metà delle uscite serali che secondo me dovevo volere. Mi sono nascosta tanti anni, sperando che in un buco o l’altro avrei trovato la convinzione sufficiente.

Che grigio fa fuori. È come se il tempo atmosferico scegliesse ogni giorno un volume dagli scaffali dentro al mio cranio: con la nebbia una storia, con il Sole tutta un’altra. Ma il cielo è grigio polvere, come se riflettesse asfalto anziché il colore dell’acqua. È nero sciacquato.

È difficile farsi venire voglia di guardare avanti o indietro, o di lavare i piatti, con un tempo così.