A voi succede?

Mi sento strana.

A parte qualche rogna prettamente fisica di cui – stavolta – dovrei venire a capo senza diventare cretina rincorrendo specialisti

(e che potrebbe essere qualcosa di dall’estremamente insulso all’estremamente orribile, ah!, che gioia essere testata da uno specialista della materia che stai studiando per il prossimo esame)

mi sento rimbalzare da uno stato all’altro – da una personalità all’altra – ogni dieci minuti, nell’ultimo mesetto.

Gestibile eh, niente di drammatico: penso una cosa e sei varianti del contrario al secondo, con un esito regolarmente indifferente.

È così, potrebbe essere colà, comì, più o meno suppergiù, quindi? Quindi sticazzi.

Ma queste palline sempre in moto che collidono tra loro senza causare grossi danni, non li ho solo io, vero?

La mia amica dice che lei non riuscirebbe a pensare costantemente (di recente ho provato a dirle ad alta voce le cose che mi passavano per la testa mentre l’ascoltavo, che neanche sono tutte perché posso pensare due cose insieme ma non vocalizzarle). Le ho risposto che lei ha una vita certamente più indaffarata della mia, con bambini e un ménage impegnativo. Mi ha risposto che non pensava così tanto neanche quando il massimo che doveva organizzare era andare a ballare nel weekend.

Alck nemmeno pensa come penso io.

Ho bisogno di conoscere persone nuove. Non perché non sia contenta di quelle che ho nella mia vita, bensì per la riduzione di interazioni che ho impostato poco prima della terapia.

Anni fa, quando ero io la pallina incontrollata che sbatteva nelle pareti del mio cranio, mi distraevo saltando da una persona all’altra, da una curiosità all’altra, da un’interpretazione all’altra. Mi manca il gioco di inquadrare le persone. Quindi tornerò a farlo, un po’.

È l’unica cosa che mi ha sempre interessata abbastanza da sedare il disordine dei miei pensieri.

Dato che mi ci vorrà qualche giorno per l’aperitivo abbozzato con una persona nuova, se vi va, ditemi un po’ cosa vi passa disordinatamente per la testa.

Aggiornamenti sparsi a puntate – 4 (Capodanno)

Non faccio in tempo ad entrare nella sala dell’oratorio affittata per il veglione, che soldi di cacio mi ruzzolano sui piedi. Diversi amici di Alck si sono riprodotti, un paio ha iniziato addirittura una decina di anni fa, altri più di recente. Così, i genitori stanno a tavola o fuori a fumare e a turno qualcuno si inabissa nel turbolento marasma di nani.

Noi abbiamo già cenato da sua mamma, che non vedeva l’ora di cacciarci perché il figlio si alleggerisse un po’. Sugo di pesce molto buono.

Alck nei giorni prima non era molto dell’idea. “Passiamo al volo a fare gli auguri e andiamo via”. Ma mi aspettavo non sarebbe andata così, basta che lui non capisca che ho capito e tutto finisce per andare come immagino.

Il primo che conosco entrando è un Filippo, che deve avere sui cinque anni ed è molto carino. Ha dei begli occhi, capelli lisci e scuri e sembra molto delicato. Chiede come mi chiamo e ci stringiamo la mano. Dietro di lui, due donne sulla trentina con l’aria rassicurante delle matriarche, che probabilmente smetterebbe di di apparire tali se sapessero che le ho definite così. Ma il mio è un complimento.

Tra l’altro, una delle due gli domanda – dopo i convenevoli tra grandi – “Ti ricordi come si chiama la ragazza di Alck?”. Lui, gongolando da sotto in su come spesso fanno i bimbi, sorride e dice “No!”

Allora gli chiedo quale sia un nome di femmina che gli piace. Scuote il caschetto di capelli neri, in effetti è legittimo che non sappia rispondere.

Rilancio: “Dimmi il nome di un dolce che ti piace!”

Su questo, non ha esitazioni: “Tenerina!”

“D’accordo, allora visto che quello te lo ricordi di sicuro, stasera mi chiamo così”.

[…]

Aggiornamenti sparsi a puntate – 2

Ho rivisto la mamma di Alck una volta sola dal funerale, un paio di giorni fa. Se non lavorasse a pochi passi da casa mia, avrei visto poco anche lui: cerca di lasciarla sola il meno possibile.

Così, quando sono passata in zona per commissioni varie, io e lui abbiamo pranzato insieme e poi siamo passati a casa da lei, dove anche lui si è trasferito in questo cesso di periodo.

Mentre Alck faceva cose, siamo rimaste a chiacchierare e penso di averla intontita di parole. Però ha anche riso, quindi non è stata una slavina verbale sgradita. Spero.

B., uno dei vecchi trip documentati nell’archivio storico di (anche) questo blog, finalmente diventerà papà!

trasformati in grandi amici per affinità, mi stupisce e intenerisce ogni volta che li sento, il candore di ragazzina che sua moglie E. diffonde. Lontanissimo da quanto cupo può farsi B., che lo trascina e lo porta verso punti di vista più luminosi. È davvero la persona che ci voleva per lui e – per quanto poco la conosca – lui è davvero quello che lei ha sempre voluto. Pensarli mi rasserena. Per fortuna: visto che mesi fa, sfortunatamente, lui ha ascoltato un vocale mandato da me e Ine, in cui lei mi chiamava “amichetta Tazzy” e da allora non ho più avuto pace.

“Ciao zietta Tazzy, sono un maschietto” è stata l’ultimo irritante messaggio che ho ricevuto. Direi che per questa volta, possiamo perdonarlo.

I giorni scorsi si sono polverizzati in un paio di rimpatriate che sarebbe troppo lungo annotare ora. Ormai è ora di prepararsi per andare a cena.

Spero che passiate una buona Vigilia.

[…]

And that’s all folks

L’amico penso più stretto che ho, oggi parte per qualche mese di lavoro all’estero.

Non ci siamo visti nelle ultime settimane e – come altri – è uno di quelli che è rimasto inaspettatamente con me nonostante la casuale convivenza universitaria si fosse conclusa.

Vale per lui come per Ine e Char: ex coinquiline e ora amiche per suppongo tutto il tempo che ci rimane.

Gli ho mandato un podcast di vocali, che ascolterà in volo e che non è rilevante segnarmi qui.

L’ultimo messaggio – superpippons – che gli ho scritto, però sì.

In parte perché è il mio blog e ci metto quello che mi pare (uscita reazionaria al sentirmi troppo concentrata su me stessa, quando probabilmente il problema è il contrario)

in parte perché un paio di cose riguardano timori che altri hanno sollevato parlando di terapia e cose del genere.

Here you are.

Considerazione finale:

tutta la fatica che mettevo nel cercare di attenermi a schemi non miei, mi ha rotto il cazzo e una decade ha abbondantemente dimostrato che non serve a una sega.

Non posso passare la vita a tenere imbrigliata una parte di cervello che vuole fare cose, perché funziona male quella che dovrebbe fare altre cose.

Avevo la paranoia che sistemarne una sarebbe andata a discapito dell’altra: sistemare l’efficienza sarebbe andato a discapito della mia arrancante identità. Pensavo di essere l’insieme dei miei casini, non di avere dei casini.

Non lo penso più, ora sono in incoraggiante riavvio entrambe.

Ho pensato molte volte di “stare meglio” ma era un meglio rispetto a un punto talmente basso, che persino lavarsi i capelli o arrivare al caffè senza desiderare di non esistere almeno dieci volte, poteva considerarsi un progresso.

Non è più così, e mi sento molto bene e ho tutta l’intenzione di continuare a sentirmici.

Metto in conto qualche ricaduta, sconforto e solitudine, ma ultimamente niente di tutto questo si è inghiottito giornate intere, né mi ha (completamente) tolto il sonno o le energie.

Mi sento bene, mi sento triste, mi sento stanca o carica per cose che non pensavo realisticamente di poter fare davvero. Il poco che riuscivo a concludere saltuariamente non mi rendeva mai contenta: non ero contenta di passare un esame, non ero contenta di raggiungere un risultato, non ero contenta dei lavoretti che facevo per tirare su due soldi.

Adesso è tutto molto diverso, o sono un po’ diversa io, ma insomma: in meglio.

Qualunque cosa mi faccia sentire meno di così, è qualcosa che non voglio attorno.

FINE

Il terzo giorno

Questo è il terzo giorno di fila in cui apro gli occhi e voglio morire.

Ne ho avuti (molti) altri, in passato; penso valga un po’ per tutto, trovarli più difficili se ti sei disabituato.

Non ho intenzione di uccidermi e, anche se l’avessi, sono troppo disorganizzata per riuscirci, quindi il problema non è questo. Il problema è che si tratta di una delle sensazioni più orribili da provare.

Ieri era il mio compleanno e io lo odio: come tutti i bipolari del mondo, le ricorrenze sono motivo di tremendi sbalzi. Per chi a ogni compleanno, si è sentita ripetere quanto non avrebbe dovuto venire al mondo, ma con il sorriso!, è la più brutta.

Nel mio caso, per essere onesta, se la gioca col Natale.

Nel mio caso, a dirla tutta, l’esistenza di mia madre peggiora drasticamente l’intera dinamica.

Se ne esce un paio di giorni prima dopo mesi di silenzio (tipicamente si fa viva per Natale e per il mio compleanno da quando avevo 16 anni, epoca in cui la casa base si sciolse e le donne rimaste in famiglia presero strade diverse) con messaggi e telefonate, a me viene da vomitare, è capitato che mi forzassi a incontrarla, segue crisi di rabbia in solitaria etc.

Con il compleanno è peggio perché tutti ti dicono “Auguri” o fanno battute scarse sugli anni che passano e sull’essere zitella e tu vorresti solo seppellirti e non esistere più. Come doveva essere.

A nessuno va bene che tu ti senta una merda il giorno del tuo compleanno: è una colpa. Sei talmente noiosa e piena di gnole, da non essere contenta nemmeno il giorno del tuo compleanno.

Come se a me divertisse rimanerne oltre 30 ore quasi immobile a piangere, senza mangiare.

Lo scrivo per ricordarmi che è assurdo e che non mi devo più mettere in una situazione del genere: sola, quando so che arriva un down.

È che non saprei a chi chiedere, di stare con me quando sto male. Non mi piace infastidire gli amici e sono comunque pochi quelli che mi hanno vista in sclero serio. Vero che diventa esponenzialmente più piccolo, quando non sono sola… non lo so.

L’anno scorso avevo programmato un impegno con una vecchia amica e aveva funzionato: ero stata bene.

Quest’anno non avevo programmato nulla perché in teoria avrei dovuto passare la giornata con Alck, il moroso recente. Pessima idea.

Alck è una cara persona, ma anche no. Nel senso: è gentile, disponibile etc, però non mi capisce neanche da lontano.

E da un lato è un vantaggio: puoi allegramente unirti a lui, nel fingere che le bombe a orologeria nel tuo cervello non esistono. Poi, quando esplodono, cazzi tuoi.

Secondo Alck, io e lui stiamo insieme da tipo due settimane dopo la nostra prima uscita. Secondo me no.

Per lui, stare con qualcuno significa mettere regole da quel momento in poi; per me si tratta di più di uno stato delle cose: ci conosciamo abbastanza, sappiamo come trattarci a vicenda, ci vogliamo abbastanza bene, ne consegue che stiamo stando insieme. Di lì il resto.

Invece devo conoscere suoi amici. Di recente si è lamentato perché non ho parlato molto con un suo amico molto gentile che è arrivato, ha fatto un monologo di venti minuti, ha scambiato con Alck opinioni su calcio, elettrodomestici e musica leggera italiana – a quel punto mi sentivo fuori gender – e poi mi ha puntato gli occhioni addosso chiedendomi: “parlami di te”.

Ora, io non so come siano abituati loro, ma due persone che conosco relativamente poco, piazzate sul lato del divano ortogonale al mio, che mi fissano e vogliono sentirsi rispondere non so che cosa, è uno dei pochi sistemi per essere certi di farmi tacere. Tra l’altro, al momento la mia vita mi fa veramente schifo, quindi non mi avrebbe esaltato come topic nemmeno fossi stata fan dell’allegro interrogatorio.

Vabé, è inutile che mi lamenti di Alck.

La vera-verità è che abbiamo fatto le cose male, troppo in fretta, e che io mi sento sola nonostante – in teoria – dovrebbe esserci lui, almeno ogni tanto.

Sono davvero a basso-consumo quando frequento qualcuno: non chiedo mai niente, non ho particolari fissazioni, mi va bene più o meno fare qualunque cosa,

però è vero: mi aspetto che se ti importa di me e vedi che sto male, tu almeno provi a tirarmi fuori. Non è necessario riuscirci.

È stato per due messaggi con un’amica al secondo aborto spontaneo, che mi sono alzata e sono andata a comprare da mangiare.

Chiaramente, queste sono riflessioni a oggi, che sto meglio.

“Ehi, come va oggi?”

“Alla grande! Ho pensato che starei meglio morta solo un paio d’ore, contro le venti di ieri!”

Oggi piangerò moltissimo (sto già piangendo moltissimo) e senza motivo. Il terzo giorno è sempre difficile, che tu voglia smettere di fumare, lasciare qualcuno o avere un tracollo nervoso.

La mia testa è vuota e non sento niente di niente: non sono triste né abbattuta, i miei sentimenti sono svuotati. Qualcosa da qualche parte, dentro di me piange ma posso lasciarlo fare finché non si sarà stufato. Ignoro chi stia piangendo e per cosa. O per chi.

Aborto: mi cascano le palle

Il tema dell’aborto, sotto tre diversi aspetti, ultimamente mi è tornato a viva forza dentro al cranio.

La scorsa settimana, ho condiviso su Facebook un post – abbastanza arrabbiato – di una tipa che difendeva il diritto a ricorrervi. Non una pubblicità pro IGV (nei confronti della quale penso ognuna debba avere la propria visione), solo un dichiarare che dovrebbe essere disponibile per tutte, senza colpevolizzazione o stronzaggine.

Sotto al post, ha preso a commentare la moglie di B., che non conosco molto.

B. lo si trova indietro di qualche anno, su questo blog. È un tipo che conobbi nell’ennesimo Sturm und Drang della mia vita; caso volle, che anche lui fosse dentro uno dei suoi.

Tra di noi, tutto quello che c’è stato si riassume in due o tre telefilmici limoni, un paio di sbroccate, per arrivare alla reciproca comprensione: tra me e lui non c’era chimica, solo un’estrema affinità, che ci aveva portati a buttare l’una sull’altro cose che non riguardavano noi.

Per questo, anche a distanza di anni, siamo rimasti ottimi amici.

Questi siamo io e lui ai laghetti: ci andiamo ogni volta che lui torna in Italia dalla Cina, Paese in cui si trasferì tre o quattro anni fa. E dove ha conosciuto sua moglie E.

La cosa che racconto sempre di loro due, è la vicenda geografica:

i due si sono conosciuti a Shangai, nel circuito degli stranieri emigrati.

Quando mi disse che aveva trovato la donna, lo immaginai – testualmente – con un’avventuriera americana, o con un’asiatica alta e misteriosa.

Invece

“No Tazza, è anche lei di BP…”

E. fino ai cinque anni, aveva vissuto nello stesso paesino immerso in nulla e nebbia, da cui viene lui.

I veneti, lo prendono sul serio il detto “Mogli e buoi dei paesi tuoi”, cazzo.

Io ed E. siamo molto diverse, ma penso ci stiamo simpatiche.

Il post che ho condiviso su FB, pur non trattando esattamente lo stesso aspetto, l’ha punta sul vivo: lei è B. hanno sofferto un aborto spontaneo, a seguito di una gravidanza molto desiderata.

E. non è complicata né cervellotica, e ha quel modo disarmante e schietto di vivere e raccontare il dolore, che a me fa sempre venire un po’ da piangere.

“Nessuno parla mai di tutte quelle mamme che non ce l’hanno fatta fino in fondo a diventarlo, a nessuno interessa”

era il succo del discorso. È vero: ne conosco altre.

In piccola parte, la capisco: ai tempi di P., mentre facevo addominali, iniziai a sentire un gran fastidio nel basso ventre – simile a crampi mestruali -, arrivai in bagno e feci appena in tempo a sedermi, che partì una lavata di sangue e schifo. Durò un paio di minuti.

Mi era già capitato di avere perdite strane (occasionalmente), ma mai una cosa del genere.

Finita, mi tirai su e feci finta di niente. Avevo altro per la testa, in quel periodo.

Tempo dopo, a una visita ginecologica, il medico mi chiese se avessi figli.

“No” risposi, presa alla sprovvista.

“Beh, di qui qualcosa è passato”.

Avevo rimosso. Con il suono delle sue parole, il ricordo di quel tardo pomeriggio tornò su come un conato di vomito.

Raccontatolo a E., si è ripristinato l’equilibrio: a quel punto, parlavamo della stessa cosa. Un aborto non è mai a costo zero, anche se ti coglie alla sprovvista e passa senza conseguenze.

Anche la mia amica CE. ha perso una gravidanza.

Ieri l’altro l’ho incrociata per caso e ci siamo fermate a fare due chiacchiere.

“Ma non mi vedi diversa??” ha miagolato sorridente.

“Sei incinta!”

“Sì! Ma è proprio fresca, infatti vediamo come va…”

Ci era rimasta davvero male, per la prima gravidanza persa. Come E.: relazione stabile, figlio desiderato, difficoltà a rimanere nuovamente incinta.

Il suo capo è un coglione: considerato il lavoro che fa, può stare a casa da subito, ma lei non è il tipo che approfitta di ogni singola possibilità per fare meno. Certo che, con il suo storico, il piano è dare a lui l’agio di sostituirla ma staccare comunque presto.

Il Capo Coglione però, non se lo merita. Prima che l’assumesse, sono stati colleghi, si conoscono da 15 anni, eppure

ha avuto il coraggio di rispondere al di lei annuncio, con:

“Beh oh, tanto lo sai che sono già pronto con la bambolina vodoo, come l’altra volta”.

Da am-maz-za-re.

Detto da uno che ha due figlie poi!

Ancora, mi è tornato tutto in mente: E. e il suo dolore, la sua candida paura di non riuscire a farcela più;

le altre storie sentite al volo, di amiche e non;

la mia, per il cui esito sono serena, perché se fosse andata diversamente sarebbe stato un casino per me, per P., e non ci sarebbe stata la terapia con Zap, e non avrei avuto Alck.

Ho ripensato allo sconforto di CE ogni mese.

Non ho una vera conclusione da tirare, penso solo che nello stracazzo di 2018

ancora

anziché ad andare avanti, a imparare a stare meglio e a capire di più, ci si ritrova a dover soffrire l’ovvio in varie forme.

L’aborto sfortunato, quello casuale, quello augurato, sono tre facce di un poliedro gigantesco, su cui mancano empatia ed educazione.

Di tutte queste storie, quello che mi rimane, è una sonora

cascata di palle.

Sdoganare piselli – cose che avrei voluto sapere

Qualche settimana fa, nel mezzo di una chiacchierata su Messenger, la mia vecchia amica Giò ha inviato uno dei messaggi più teneri che abbia mai ricevuto.

Glo

Devo ammetterlo: mi ha un po’ commossa.

Primo: è impressionante il fatto che ancora lo ricordi, considerato che parliamo di almeno-almeno 18 anni fa;
secondo, anche io ricordo la stessa chiacchierata, che inaugurò formalmente una fase particolarmente sgradevole della mia vita: la fila di menzogne.

Per tutta l’esistenza, mi ero acrobaticamente destreggiata a sopravvivere in una casa dove quattro persone diverse si urlavano addosso e urlavano addosso a me,
tutto 
e il contrario di tutto.

I bambini non hanno bisogno di tante parole, hanno solo bisogno che quelle che sentono corrispondano alla realtà;
quando realtà e parole cozzano, è un casino: una giungla ostile e tu non capisci dove sei, né con chi.

La Commedia dell’Arte di cui ero comparsa, aveva numerosi punti in comune con molte – troppe – altre case italiane:

il sesso è sporco e sbagliato 
voler far sesso è sbagliato e tu fai cagare per il solo averlo pensato
il genere maschile è composto da una mandria di zombie con rotoli di peli di cazzo al posto del cervello che non sono interessati ad altro che a usarti;
contraccettivi sono cose che conoscono solo le sporche puttane che fanno sesso prima del matrimonio;
se torni a casa incinta la tua vita e quella di tutta la famiglia è finita e l’artefice sei tu (come se non avessi già fatto abbastanza).

cose così.

Tipica, vincente, tattica
applicata nelle famiglie in cui si sono verificate gravidanze indesiderate,
e negli Anni di Piombo:
la Strategia del Terrore.

Quando una volta, tanto tempo fa, mi trovai di fronte alla prima vera occasione di contatto fisico, la prima cosa che feci fu mentire: gli dissi che – anche se non molto – qualcosa avevo già fatto.
Il ragazzo con cui persi la verginità, non ha mai saputo di essere stato anche il mio primo, vero bacio.
L’intimità con un’altra persona era da un lato una cosa che volevo, dall’altro un orribile tradimento alla mia famiglia;
un’esperienza da dividere con qualcuno che amavo, e una cosa che mi avrebbe sporcata per sempre, per cui ogni familiare non mi avrebbe più guardata in faccia;

sarebbe stato scegliere quella cosa disgustosavergognosa, fatta per persone deboli, incapaci di controllare i propri impulsi più bassi, sopra la propria famiglia.

Era chiedermi troppo, l’essere del tutto sincera. Avevo troppa paura.

E adesso bestemmio, e lo faccio nel mio dialetto: dio-bròt-boia

non fate MAI una cosa del genere alle vostre figlie.

Alla fine, non scelsi io per me: scelsero i miei ormoni
(mentre i miei neuroni, ancora se la combattono con una certa brutalità)

e il sesso era strano, nuovo, e francamente… non tutto ‘sto problema.

Non penso alle abilità di uno o dell’altro – che sono arrivate dopo un po’ – ma proprio in relazione al fenomeno: non c’era alcun terribile evento, ad attendermi dopo aver perso la verginità;
sotto alle mutande di lui non c’era niente di strano, dando per scontata la curiosa anatomia dell’organo riproduttivo maschile

alf

Ripensandoci, mi sono chiesta se – in fondo – non fosse, colpa loro.

Erano anni in cui si sceglieva se affondare o restare a galla: c’era poco tempo da dedicare ai più piccoli e si cercava di rendere più efficace e incisivo il messaggio, col minore dispendio energetico possibile.

Ripensandoci meglio, ho pensato: CAZZATE.

C’era gente messa uguale, che ha risparmiato anni di terrorismo psicologico e senso di colpa ai figli. E se i miei lo avevano imparato, perché a propria volta gli era stato insegnato così, potevano accendere il cazzo di cervello.

Il fatto è che, più ripenso a queste cose, più rinforzo due effetti:

da un lato, mi sento meglio. Instabile, confusa, ma meglio;

dall’altro, man mano, perdo gradualmente ogni tipo d’interesse verso i miei familiari, parametro rispetto al quale mi ero sempre – involontariamente – definita.

Chissà poi perché, considerato che esistevo nella misura in cui facevo qualcosa che andasse bene a loro e stop.

E seguo questo processo accadere, con tutte le loro espressioni stranite e incomprensioni del caso, come fosse una cosa triste in sé, ma troppo lontana per riguardarmi.

Mi interessano sempre meno… ed è strano e inaspettato, come quei calzini fatta a guanti per le dita dei piedi. Anzi: meno d’impatto, non è brutto e non dà fastidio.

Oh beh, sarà che succede così a sentirsi dare della puttana per 15 anni.

Il principio di groppone-reazione

Qualche giorno fa, mentre leggevo le anteprime wapp di una tristissima Ine, guardavo scorrere foto allegre che – proprio in quel momento – lei stava aggiungendo su Instagram.

“Piango troppo ultimamente…”

*foto di aperitivi tra i monti e sorrisi*

Lo faccio anche io, dev’esserci una sorta di legge fisica, per spingere via il groppo che abbiamo in gola:

Per ogni momento di para, esiste un quantitativo di foto uguale e contrario, da postare sui social.

Penso riguardi il bisogno di una rappresentazione di felicità che, non potendo vivere dentro in quel momento, cerchiamo di far entrare da fuori.

Stavo per scrivere: come se si potesse far entrare qualcosa in noi dagli occhi degli altri.

C’è un cortocircuito: il concetto che abbiamo di noi stessi (Concetto di Sé, mi insegnarono a scuola), passa in gran parte dal feedback che gli altri ci rimandano;

invece, forzare la mano in senso contrario, non ha senso e non funziona.

È un po’ come dirsi “Visto che, statisticamente su ogni aereo dirottato c’è un solo individuo armato, per sentirmi sicuro sarò io a salire con un coltello”.

Si chiama – forse – probabilità condizionata. (Farnesina STATE CALMI: era solo un esempio).

Comunque, è un palliativo da poco. Ovviamente non funziona, ma ho sempre trovato tristemente divertente, questo riflesso telematico.

Chissà quante sono, le foto sui social che si guardano con una punta d’invidia, e invece stanno lì appese, come bugie. Finti “bene” con cui rispondiamo a chissà chi nei momenti di sconforto.

Non so quanto sia sano.

Io l’ho fatto, e probabilmente lo rifarò, quindi lungi da me avere la risposta.

Del resto, ieri lo psicocoso Zack mi ha detto:

“Se scrivo il tuo nome sul calendario, il correttore del cellulare mi dà ‘Dedalo’, chissà come mai eh?”

Invece a volte, mi pare che nessuno di noi sia poi complicato.

I nodi nei pensieri

Sono stata a trovare Ine, ex coinquilina tenerella, dottoressa, con un bimbo bellissimo e il corpo di una hostess svedese; peccato che sia pieno di ossa rotte.

Ho iniziato a scrivere dei due giorni passati con lei, ma è complicato, perché abbiamo tanto parlato e – per lo più – di cose orribili, perché orribili sono stati i suoi anni con Quellolà.

Mentre parlava di quello che aveva subito, dal continuo essere sminuita, non considerata né amata, criticata per i sentimenti più basilari (“Ho capito che ieri è morta tua nonna, ma che due coglioni tornare a casa con te che piangi”), tradita e mi fermo (perché sono cazzi suoi e perché potrei andare avanti ore)

cercando di razionalizzare, le ho detto: “Quellolà è talmente coglione che non lo faceva magari nemmeno per farti male. È che non gliene fregava un cazzo”

e anche se non era quello che intendevo, sentivo strisciare nelle mie parole un’indesiderata vena di giustificazione, o almeno di spiegazione.

Ora che è trascorsa quasi intera una settimana da quei due giorni là, e ho badato di digerire solo il pallido racconto del guano in cui lui l’ha fatta stare, ho bisogno di ritrattare.

Perché non c’entra una minchia che lui l’abbia fatto deliberatamente o no: come ci comportiamo è una nostra responsabilità.

E lui le ha gocciolato addosso, giorno dopo giorno, sera dopo sera, sputi di disprezzo.

Non era mai abbastanza bella, abbastanza allegra, abbastanza disponibile. Non era mai abbastanza.

Ci ha provato di demolirla, per anni. E non ce l’ha fatta perché Quellolà rimane una mezza sega, uno di quelli che nemmeno con ogni risorsa a loro disposizione saprebbero atterrarti.

Era lei, che desidera tanto una famiglia, a prostrarsi. Lui non l’avrebbe scalfita di lontano, se lei non gli avesse guidato la mano.

Ma non è abbastanza; mica lei: non è abbastanza che lei fosse disposta a incassare

non è abbastanza che lui sia meno intelligente

non è abbastanza che il figlio fosse stato un “incidente”.

Niente di tutto questo, né di tutto il resto, è abbastanza.

Mi manca ancora un po’, per processare quei racconti e arrivare alla fine del mio filo del pensiero. Adesso si blocca su un nodo, che per quanto mi riguarda, è tutto odio.

Lesbodrama – Dicevamo

Sicuramente sbaglio, ma nella mia testa l’universo maschile e quello femminile si bilanciano vicendevolmente.
Per una mera questione culturale che assegna ai due sessi, peculiarità caratteristiche.
E io, che sono misantropa, tollero meglio un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, che da un certo punto di vista è un po’ come se si annullassero a vicenda.

Le lesbiche, sono doppia dose.
Durante l’adolescenza in modo particolare perché – non so che genitori abbiate avuto voi – ma per me non era contemplata l’ipotesi di stare da sola con un mucchio di maschi a mangiare, dormire, vegetare insieme chiusi in casa per giorni interi senza sorveglianza alcuna.
Questo per dire che, fosse andata diversamente, avrei le turbe pure su i gay.

Comunque, la storia della mia amica poi è proceduta tranquillamente, tra i normali alti e bassi di qualunque coppia immersa in un gruppo di amici, solo con molte, moltissime, parole in più.

Poi io e lei litigammo, non ricordiamo per cosa, e non ci parlammo per un paio d’anni, ritrovandoci poi quando – entrambe single – ci siamo messe assieme.
No, scherzo.
Ma siamo tornate amiche.

E qui si apre il capitolo successivo di cosa non sopporto dell’universo Lesbodrama: una volta che ci si lascia, hanno l’odiosa fissazione di voler restare
tutte
amiche.