Seguito

(Per fortuna posso fingere di essere stesa dalla terza dose oggi).

Dicevo, non avevo avvisato Alck del nuovo lavoro, per i perché e i percome già visti. La cosa non gli ha fatto piacere, ma ovviamente non lo ha rimarcato perché tra me e lui una vera confidenza si instaurava solo nei momenti delle grandi discussioni e poi scemava nella quotidianità, riportandoci all’educata condizione di semiestranei che si baciano spesso. Comunque neanche a me aveva fatto piacere, tre anni fa, che lui rifiutasse una proposta di lavoro per conto mio, quando una sua collega gli aveva chiesto di riportarmela. Durante una delle discussioni finali gliel’ho ricordato, perché era stato un brutto gesto. Lui nemmeno se lo ricordava.

(Da quando ho cominciato questa bozza sono passati credo quattordici giorni, incluso il Natale).

(E quasi un mese e una ripresa di psicoterapia ulteriore).

Nonostante siano passati pochi mesi, da quei giorni, non riesco a ricordare le date o gli eventi. Ricordo solo che ero contenta, stanca, frustrata da Alck e dalla mia incapacità di fare le cose che – fino a quello che mi sembrava il tempo di uno starnuto prima – avevo amato. Scrivere, soprattutto.

Ora, quel lavoro (lo stesso che faccio adesso), è strano. Nonostante da qualche settimana mi ritrovi sempre nella solita fabbrica, che è una grossa cliente e con un’amministrazione un po’ confusa e un sacco di gente a casa causa Covid, in genere posso trovarmi a fare di tutto e ovunque (in un ragionevole raggio).

Dallo scorso agosto ho tolto moquette (e colla sottostante, un incubo al metro quadro), scaricato rimorchi, rimosso un favo di calabroni del tutto ignara del livello potenziale di letalità, trovato lavoratori, visitato cantieri, pulito la stessa fabbrica – in gran parte da sola, perdendo la sensibilità a mezzo piede destro – accompagnato gente a lavorare, pulito giardini e potato siepi, e probabilmente dimenticato qualcosa.

Più di tutto, ho ricominciato a trovare quello che avevo perso.

Il giorno prima dell’inizio (perché il primo lavoro è stato alla fabbrica di biscotti che mi sequestrerà di nuovo tra qualche ora), Alck mi ha portata a vedere dove fosse, per essere sicura di trovarla facilmente. L’idea di andarci da sola un po’ mi spaventava: non ero abituata a guidare, non avendo un’auto mia. Per anni ero stata l’autista sobria di diverse serate, proprio perché non avendo l’auto ricambiavo gli eterni passaggi lasciando bere qualcosa a chi ce la metteva sempre, ma l’anno e mezzo di Covid mi aveva tenuta a casa, e l’anno e mezzo precedente mi aveva tenuta a casa Alck. E comunque gli amici con cui uscivo di solito si erano tutti sparsi agli angoli del pianeta, o dell’Italia, quindi c’era poco da stare sobri ai ritorni.

Comunque, la mattina in cui dovevo mi sono avviata, sullo scassato furgoncino messo a disposizione da Amica P, e ho raggiunto senza problemi (ma vari momenti di smarrimento nonostante il percorso praticamente obbligato: “Oddio, sono assolutamente certa che di qui non siamo mi passati, arriverò a Berlino anziché a lavoro!”) il posto.

I problemi sono cominciati quando, messo giù il furgoncino, mi sono resa conto che era praticamente impossibile entrare.

Aggiornamenti sparsi a puntate – 3 (paturnie paterne)

A volte mi sembra ancora strano che il papà di Alck sia morto. Ero così abituata a sentirne parlare, ai continui segni della sua presenza nella vita del figlio, che ogni tanto la realtà mi viene in mente all’improvviso e mi coglie impreparata.

Per contro, questo Natale ho deciso che non c’è più bisogno io perda fegato e tempo a preoccuparmi del “mio”.

Ho cercato di giustificare per anni i moti di nausea e fastidio che mi provocava, passare tempo con lui. Una repulsione epidermica. Mi urta profondamente ricordare qualunque contatto fisico che lo riguardi. Mi fa schifo.

Mi rendo conto non sia carino dichiararlo, ma è così che mi sento. Presumo sia naturale, quando il riassunto accurato degli incontri con un “genitore” è:

  • ricordarmi che non era minimamente sua intenzione concepirmi, nonostante in fondo gli stia simpatica
  • sputare merda su chi mi ha disordinatamente cresciuta, attribuendo ad altri la responsabilità di non esserci mai stato.

Anche basta, con le puttanate. Non vedere quel genio dal 26 dicembre 2017 mi è tanto piaciuto, che ho pensato di continuare.

Quindi, il 26 – giorno che anni fa fu battezzato di rito per il pranzo dai nonni paterni – non mi sono presentata.

Poi era l’unico giorno libero di Alck e siamo stata a pranzo da sua mamma, che è davvero una persona gradevole: non mi sarebbero toccate ore a mordermi la lingua e a sentirmi di merda.

Ovviamente i nonni lo sapevano e ho passato con loro qualche ora il 25. Loro sono stati i miei nonni sul serio: mi hanno portata appresso a pescare, in campagna, a casa, in piscina, a volte anche dal dottore. Ho passato con loro del tempo, che mi dedicavano. Il figlio non c’era mai, in queste occasioni. Troppo impegnato a fare il fenomeno con la figa da due soldi di turno, a fare lanci con il paracadute e a pippare come un idiota.

Il senso di rigetto che mi provoca averci tutto questo DNA in comune, neanche so descriverlo. È potente.

Beh, stavolta, anziché infliggermi la solita crisi di nervi delle feste, ho scelto.

Se devo essere sincera, erano due decenni che non passavo un Natale – pur intristito dalla perdita del papà di Alck – tanto sereno.

Se questo discorso avesse senso, direi che è morto quello sbagliato.

[…]

Di mal di pancia e sproni – filastrocca motivazionale per depressi

Quando il cervello – ‘sto maledetto

ti blocca, impedendo di alzarsi dal letto

vanno chiamati a rapporto i rinforzi

prima che il poco di spinta si smorzi.

Intestardirsi davanti a un muro

non porta a nulla: lo so di sicuro

bisogna lasciare spazio alla mente

che torni ad andare, appena si sente.

Allora scrivo agli amici più stretti

che ben conoscono ormai i miei difetti

mi sparano fuori due o tre bestemmioni

“forza dioca*e, tira fuori i coglioni!”

e il più delle volte riparte il neurone

come – percossa – una televisione.

Mi alzo e lo sbalzo mi porta lontano

petardi nel culo non fanno aeroplano

ma possono spingere chiappe pesanti

che sole faticano ad andare avanti.

Il più delle volte è sufficiente

farsi insultare un po’ dalla gente

(quando ormai si è già guariti

mentre è diverso da troppo feriti)

per riavviarsi con più convinzione

è sempre utile ci siano persone.

Quindi isolarsi è una pessima idea

non va subita come marea

il sentirsi di merda può capitare

serve e bisogna, farsi aiutare.

Se si sta molto male non fa differenza

ma con gli amici è diverso, che senza.

E mandate affanculo i poveretti

che vi fanno sentire soli e reietti

Lasciate indietro chi vi urta e vi spegne

la vostra famiglia è chi a voi ci tiene.

Chiacchierate in famiglia

Sono cresciuta nella spontanea convinzione che tutte le famiglie fossero come la mia, circa. Il primo decennio di vita, trascorso in gran parte leggendo libri, non ha fatto che rinforzare l’impressione: le storie di Bianca Pitzorno ritraevano nuclei atipici e articolati, quelle di Roald Dahl descrivevano situazioni grottesche, per non parlare di Dickens e poi degli autori di cui un solo testo figurava nelle collane dei classici per ragazzi: Papà Gambalunga, Il Giardino Segreto, La Piccola Principessa. E così via, in una lunga trafila di gruppi composti da casi umani, in cui mi ritrovavo alla perfezione.

Quando parlo con Alck e lui fa tanto d’occhi, realizzo quanto casa mia sia una raccolta di disfunzionalità che – pur non rare – è difficile trovare tutte allo stesso indirizzo, catalogate dietro solo un paio di cognomi. Che primato del cazzo.

Un paio di giorni fa, per questioni di scelte di vita e soldi, mi sono trovata con le mie due zie (materne) e, come spesso accade, salutata la più grande delle due, con la Zia Giovane abbiamo fatto una di quelle sedute da un paio d’ore in cui fumiamo l’impossibile e dipaniamo secoli di matasse annodate, tra una voluta e l’altra.

Se nella famiglia di mio padre grossi drammi non ci sono, in quella di mia madre non esiste un membro uno che non sia sopra le righe e chiaramente pieno di paturnie. Chissà, dove è iniziata.

Sicuramente la Bisnonna ha incarnato il ruolo di demiurgo e di gran stronza, per almeno una settantina d’anni (dato realistico: è morta oltre il secolo). Era una donna affascinante, volitiva, decisa e cattiva. Sadica. Non con me: nei miei confronti è sempre stata generosa, disponibile e accogliente.

Da un certo punto di vista, ha sempre avuto un occhio di riguardo per chi si comportava peggio: suo figlio (fratello di mio nonno, violento, vizioso e poi incarcerato e morto giovane tra le braccia della madre e i sanitari, sul pavimento del bagno), mia madre (matta da legare, la vedo malvolentieri circa una volta all’anno da quando ho compiuto i sedici)

e poi dava contro, con umiliante disprezzo, a chi automaticamente si sottometteva a lei, come la nuora (mia nonna), che si è spaccata la schiena – anche non pagata – per anni, nell’attività di famiglia.

Ho pensato a lungo, in queste settimane. Tra le altre cose, a scrivere (qui), ma per la testa continuavano a girarmi ingestibili, pensieri sfilacciati e veloci. Niente che, sul momento, potesse portare a un discorso di senso compiuto.

Però, da qualche anno, mi gira in testa una considerazione che si è fatta via via più ingombrante: i segreti perdono qualunque rilevanza, una volta esposti. E io, di segreti pericolosi non ne ho, ma tra tutte noi di casa, di segreti dolorosi e vergognosi ne abbiamo a bizzeffe. Ci hanno insegnato a vergognarci.

Le mie zie – una l’indirizzo di questo blog lo ha – anni fa sarebbero crollate, all’idea che qualcuno potesse raccontare. Anonimamente o meno, irrilevante: i panni sporchi si lavano in casa, nella testa, nelle viscere, così che lo sporco degli altri ci si accumuli dentro. Come un veleno, una punizione, la giusta condanna per chi ha la sfrontata incoscienza di venire al mondo.

Il peccato originale, al nostro indirizzo, è rimasto per decenni infiammato e bruciante, senza battesimi per affrancarsene né preghiere sufficienti a soffocarlo.

Ma poi, perché?

Perché siamo rimaste tutte ad annuire e a prendere per buone le spiegazioni, costantemente confermate da un microcosmo di facce di merda di paese, che hanno trovato, nella miseria della propria vita, come unico divertimento, pitturare di lordura quella degli altri.

Quello che ti viene costantemente ripetuto, dopo un po’ diventa vero.

Alla terza sigaretta, mia zia mi ha chiesto se c’ero, al centenario della Bisnonna, mestamente festeggiato al ricovero per anziani.

“No, non mi avevate chiamata”

“Beh va bé, allora ti dico questo. La Nonna, quando è stato il momento di fare una foto in famiglia tutti insieme, di riflesso è arretrata. Le ho chiesto ‘Mamma, ma cosa fai? Vieni a fare la foto’.

Lei scuoteva la testa e non voleva avvicinarsi. La Bisnonna, ti ricordi: a quel punto non ragionava più, e la Nonna era ancora ter-ro-riz-za-ta.

Le ho dovuto ripetere, più volte, ‘Mamma, guardala: non può più farti niente”.

Io non so dove finisca l’inevitabile e inizi la scelta del proprio inferno

so bene che levarsi un condizionamento cresciuto con noi, è quasi impossibile.

Il fatto che io fossi piccola, negli ultimi anni dell’Impero del Disastro di casa, da un lato mi ha spezzata in più parti, dall’altro mi ha lasciato sospesa tra un microcosmo e il resto del mondo.

Ognuna delle mie parti, ora, concorda su una conclusione: fuori tutto.

Che sia qui, per strada nel mio ridicolo paese, in faccia ai diretti interessati o ovunque ne abbia voglia.

Perché, tra tutti i miei pezzi tirati a destra e manca, ha finito per rompersi proprio la vergogna

ma è rimasta intatta e pronta all’uso, una gran faccia come il culo.

È un forse un bugiardo?

È forse un bugiardo, chi mente convinto di dire la verità?

SÌ madonna ladra, SÌ.

Ci tengo a te, lo sai, solo che non riesco a dimostrarlo

Beh, va a prendere ripetizioni da altre, visto che quando sono io a dirti come, te ne batti le palle.

Fine del capitolo.

Per molti, molti anni, mi sono fatta dire dagli altri cosa e come dovevo fare le cose. E poi non le facevo.

Era più forte di me: il cervello non funzionava ma dovevo corrispondere aspettative.

Tutti mi dicevano come e cose, oppure mi mollavano lì. E io tentavo e fallivo, tentavo e fallivo.

Ho fallito così tanto, che non sono più sicura mi sia mai possibile fare il contrario.

E tutti a dirmi come fare e a non ascoltare se rispondevo che così non mi riusciva.

E io a fidarmi di tutti anziché di me.

E svegliarmi con il vomito di vivere, senza una cosa che mi invogliasse a prendere un respiro.

MA-CHE-DUE-COGLIONI

Anzi, una: io.

Ho speso più energie nel disperato tentativo di assolvere al metodo che mi veniva ripetuto, che per raggiungere il risultato.

Ora, sputtanati così dieci anni, tra neuroni scollegati e sensi di colpa infiniti, mi sono anche rotta il cazzo.

Ogni volta che mi arrabbio, mi parte nel cranio la trama di un libro.

Piano: il libro grosso è il progetto che mi ha tenuta a galla per un anno e mezzo, ma ho bisogno di un tempo isolato e tranquillo per finirlo e di qualche ricerca (è un libro complicato).

In questi giorni mi è poppato nel cranio un libretto più breve, simpatico (per me). Tutt’altro.

Con il libro grosso sono piombata di nuovo nel tunnel del È-COSÌ-CHE-DOVREI-FARE.

Di nuovo: energie buttate su passaggi non miei. I miei funzionano: hanno funzionato per duecento facciate, funzioneranno ancora.

Sto-cazzo che voglio tornare a vivere così.

Ci sono cose da fare nel mondo reale, facciamole, e intanto riposiamoci scrivendo una cosa carina.

Scadenze (perché un minimo di struttura mi serve):

  • Più video sono scritti: dal 20 al 30 settembre, ne voglio registrare almeno due. Pubblicazione: prima settimana di ottobre. Se mi cagherò sotto, metterò un pannolone.
  • Libro breve: fine ottobre. Di quello ho già tutto, sotto le cento facciate, sedici seguiti già nella testa.
  • Libro lungo: quello è un casino. È una storia complicata, molto lunga, molto figa, che mi è partita nella testa come se avessi acceso Netflix dal fondo della retina. Entro fine dicembre la bozza va chiusa.
  • Checcazzo, basta annuire, fallire o scappare.
  • È tempo di fare.
  • In coda

    Alla cassa c’è una tipa che ricordo dai tempi in cui io ero bambina e mi sbucciavo le ginocchia nel ridicolo fazzoletto di piastrelle e aiuole vicino casa; lei si faceva le canne su una panchina con i pantaloni a zampa old school insieme ai suoi amici, scrollando capelli lunghissimi e mozziconi portati con un certo stile.

    Ora è in banca davanti a me, con un triste taglio corto vecchio quanto i miei ricordi, vestita da suora laica che fa battute incomprensibili alla cassiera mentre agita furiosamente le dita dei piedi fuori da sandali molto brutti.

    Una signora anziana con due gambe di tutto rispetto, non molto coperte da una gonna doppio strato di pizzo, capelli crespi modello due-dita-nella-presa-1997 sgrana un rosario alla mia sinistra.

    Funziona! Quando al suo turno domanda gracchiante: “I SOLDI CI SONO?!” una delle cassiere annuisce festante, lei si fionda e ritira il contante.

    La bancaria con cui avevo appuntamento 18 minuti fa sta facendo chiacchiere inutili nel suo ufficio.

    Lei è bellissime, perfettissima e divertentissima: scherza, ricorda, chiede a segno i fatti tuoi e ovviamente dimentica di consultare l’agenda che la segretaria insipida compila con impegno, proprio quando tocca a me.

    La mia pazienza sta per finire e quando la mia pazienza finisce, scompaio.

    Medito di usare la mia vecchia tecnica collaudatissima:

    chiudere telefonicamente con il minor sforzo possibile, al massimo qualche sms passivo-aggressivo e badare bene di non farmi più vedere con le occhiaie e i capelli spettinati da questa filiale. Ha funzionato con un paio di piselli, funzionerà anche con un deposito titoli altrettanto piccolo.

    Il quarto giorno

    Questo sclero (o picco, o crisi, o down, come vi pare) è stato diverso da tutti gli altri.

    Il caso, o la fitta agenda dello Psicocoso Zap, ha voluto che proprio per ieri pomeriggio avessi un appuntamento fissato da tempo.

    “Allora? È un po’ che non ci vediamo!” ha fatto lui, con il suo modo da psicocoso (che apprezzo: è gradevolmente impostato).

    “Come sono andate le ultime settimane?”

    “Mah, niente di rimarchevole fino a qualche giorno fa: sono rimasta a letto – e intendo praticamente immobile – per circa 48 ore, finché – avendo finito le scatolette che avevo in casa da almeno 20 ore – sono uscita a comprare da mangiare.

    Poi ho letto un messaggio su Facebook, di una signora che mi avvisava di aver rinvenuto il mio portafoglio sul bus che mi aveva riportata a casa martedì sera, e di averlo consegnato all’autista. Io non me n’ero resa conto.

    Quindi sono andata in stazione la mattina successiva, un paio d’ore dopo rispetto a quando avrei voluto perché ero talmente rallentata che neanche la strategia delle sveglie ogni dieci minuti è bastata a darmi un ritmo umano, e ho iniziato a chiedere a destra e manca. Solo che – a differenza dei soliti strippi – uscire di casa non mi ha switchata automaticamente in modalità “socialmente accettabile“, quindi mi sono praticamente sciolta in lacrime con ogni autista intercettato.

    Uno, particolarmente lapidario sulle prime, dopo avermi finalmente fornito qualche informazione e rimandata a un altro che forse sapeva qualcosa di più, mi ha rincorsa per regalarmi il blocco completo degli orari di tutte le linee, come scusandosi dell’atteggiamento iniziale. Nemmeno ricordo se l’ho ringraziato.

    Nel frattempo ero al telefono con Alck, decisamente spaesato. Non è mai una buona idea parlare al telefono con me quando sono così. Poco dopo mi ha chiamata Amico Storico, e ho fatto un altro zigalino davanti ai bus, che tanto le stazioni sono da sempre ricettacolo di strana umanità e ormai formalizzarsi serviva a niente.

    Alla fine, sono venuta qui”.

    “Oh, ok…”

    Zap e io ci siamo guardati per un po’.

    Immagino debba aver pensato – correttamente – che non fossi in grado di affrontare una delle sue sedute “operative”

    […]

    Aborto: mi cascano le palle

    Il tema dell’aborto, sotto tre diversi aspetti, ultimamente mi è tornato a viva forza dentro al cranio.

    La scorsa settimana, ho condiviso su Facebook un post – abbastanza arrabbiato – di una tipa che difendeva il diritto a ricorrervi. Non una pubblicità pro IGV (nei confronti della quale penso ognuna debba avere la propria visione), solo un dichiarare che dovrebbe essere disponibile per tutte, senza colpevolizzazione o stronzaggine.

    Sotto al post, ha preso a commentare la moglie di B., che non conosco molto.

    B. lo si trova indietro di qualche anno, su questo blog. È un tipo che conobbi nell’ennesimo Sturm und Drang della mia vita; caso volle, che anche lui fosse dentro uno dei suoi.

    Tra di noi, tutto quello che c’è stato si riassume in due o tre telefilmici limoni, un paio di sbroccate, per arrivare alla reciproca comprensione: tra me e lui non c’era chimica, solo un’estrema affinità, che ci aveva portati a buttare l’una sull’altro cose che non riguardavano noi.

    Per questo, anche a distanza di anni, siamo rimasti ottimi amici.

    Questi siamo io e lui ai laghetti: ci andiamo ogni volta che lui torna in Italia dalla Cina, Paese in cui si trasferì tre o quattro anni fa. E dove ha conosciuto sua moglie E.

    La cosa che racconto sempre di loro due, è la vicenda geografica:

    i due si sono conosciuti a Shangai, nel circuito degli stranieri emigrati.

    Quando mi disse che aveva trovato la donna, lo immaginai – testualmente – con un’avventuriera americana, o con un’asiatica alta e misteriosa.

    Invece

    “No Tazza, è anche lei di BP…”

    E. fino ai cinque anni, aveva vissuto nello stesso paesino immerso in nulla e nebbia, da cui viene lui.

    I veneti, lo prendono sul serio il detto “Mogli e buoi dei paesi tuoi”, cazzo.

    Io ed E. siamo molto diverse, ma penso ci stiamo simpatiche.

    Il post che ho condiviso su FB, pur non trattando esattamente lo stesso aspetto, l’ha punta sul vivo: lei è B. hanno sofferto un aborto spontaneo, a seguito di una gravidanza molto desiderata.

    E. non è complicata né cervellotica, e ha quel modo disarmante e schietto di vivere e raccontare il dolore, che a me fa sempre venire un po’ da piangere.

    “Nessuno parla mai di tutte quelle mamme che non ce l’hanno fatta fino in fondo a diventarlo, a nessuno interessa”

    era il succo del discorso. È vero: ne conosco altre.

    In piccola parte, la capisco: ai tempi di P., mentre facevo addominali, iniziai a sentire un gran fastidio nel basso ventre – simile a crampi mestruali -, arrivai in bagno e feci appena in tempo a sedermi, che partì una lavata di sangue e schifo. Durò un paio di minuti.

    Mi era già capitato di avere perdite strane (occasionalmente), ma mai una cosa del genere.

    Finita, mi tirai su e feci finta di niente. Avevo altro per la testa, in quel periodo.

    Tempo dopo, a una visita ginecologica, il medico mi chiese se avessi figli.

    “No” risposi, presa alla sprovvista.

    “Beh, di qui qualcosa è passato”.

    Avevo rimosso. Con il suono delle sue parole, il ricordo di quel tardo pomeriggio tornò su come un conato di vomito.

    Raccontatolo a E., si è ripristinato l’equilibrio: a quel punto, parlavamo della stessa cosa. Un aborto non è mai a costo zero, anche se ti coglie alla sprovvista e passa senza conseguenze.

    Anche la mia amica CE. ha perso una gravidanza.

    Ieri l’altro l’ho incrociata per caso e ci siamo fermate a fare due chiacchiere.

    “Ma non mi vedi diversa??” ha miagolato sorridente.

    “Sei incinta!”

    “Sì! Ma è proprio fresca, infatti vediamo come va…”

    Ci era rimasta davvero male, per la prima gravidanza persa. Come E.: relazione stabile, figlio desiderato, difficoltà a rimanere nuovamente incinta.

    Il suo capo è un coglione: considerato il lavoro che fa, può stare a casa da subito, ma lei non è il tipo che approfitta di ogni singola possibilità per fare meno. Certo che, con il suo storico, il piano è dare a lui l’agio di sostituirla ma staccare comunque presto.

    Il Capo Coglione però, non se lo merita. Prima che l’assumesse, sono stati colleghi, si conoscono da 15 anni, eppure

    ha avuto il coraggio di rispondere al di lei annuncio, con:

    “Beh oh, tanto lo sai che sono già pronto con la bambolina vodoo, come l’altra volta”.

    Da am-maz-za-re.

    Detto da uno che ha due figlie poi!

    Ancora, mi è tornato tutto in mente: E. e il suo dolore, la sua candida paura di non riuscire a farcela più;

    le altre storie sentite al volo, di amiche e non;

    la mia, per il cui esito sono serena, perché se fosse andata diversamente sarebbe stato un casino per me, per P., e non ci sarebbe stata la terapia con Zap, e non avrei avuto Alck.

    Ho ripensato allo sconforto di CE ogni mese.

    Non ho una vera conclusione da tirare, penso solo che nello stracazzo di 2018

    ancora

    anziché ad andare avanti, a imparare a stare meglio e a capire di più, ci si ritrova a dover soffrire l’ovvio in varie forme.

    L’aborto sfortunato, quello casuale, quello augurato, sono tre facce di un poliedro gigantesco, su cui mancano empatia ed educazione.

    Di tutte queste storie, quello che mi rimane, è una sonora

    cascata di palle.

    Sdoganare piselli – cose che avrei voluto sapere

    Qualche settimana fa, nel mezzo di una chiacchierata su Messenger, la mia vecchia amica Giò ha inviato uno dei messaggi più teneri che abbia mai ricevuto.

    Glo

    Devo ammetterlo: mi ha un po’ commossa.

    Primo: è impressionante il fatto che ancora lo ricordi, considerato che parliamo di almeno-almeno 18 anni fa;
    secondo, anche io ricordo la stessa chiacchierata, che inaugurò formalmente una fase particolarmente sgradevole della mia vita: la fila di menzogne.

    Per tutta l’esistenza, mi ero acrobaticamente destreggiata a sopravvivere in una casa dove quattro persone diverse si urlavano addosso e urlavano addosso a me,
    tutto 
    e il contrario di tutto.

    I bambini non hanno bisogno di tante parole, hanno solo bisogno che quelle che sentono corrispondano alla realtà;
    quando realtà e parole cozzano, è un casino: una giungla ostile e tu non capisci dove sei, né con chi.

    La Commedia dell’Arte di cui ero comparsa, aveva numerosi punti in comune con molte – troppe – altre case italiane:

    il sesso è sporco e sbagliato 
    voler far sesso è sbagliato e tu fai cagare per il solo averlo pensato
    il genere maschile è composto da una mandria di zombie con rotoli di peli di cazzo al posto del cervello che non sono interessati ad altro che a usarti;
    contraccettivi sono cose che conoscono solo le sporche puttane che fanno sesso prima del matrimonio;
    se torni a casa incinta la tua vita e quella di tutta la famiglia è finita e l’artefice sei tu (come se non avessi già fatto abbastanza).

    cose così.

    Tipica, vincente, tattica
    applicata nelle famiglie in cui si sono verificate gravidanze indesiderate,
    e negli Anni di Piombo:
    la Strategia del Terrore.

    Quando una volta, tanto tempo fa, mi trovai di fronte alla prima vera occasione di contatto fisico, la prima cosa che feci fu mentire: gli dissi che – anche se non molto – qualcosa avevo già fatto.
    Il ragazzo con cui persi la verginità, non ha mai saputo di essere stato anche il mio primo, vero bacio.
    L’intimità con un’altra persona era da un lato una cosa che volevo, dall’altro un orribile tradimento alla mia famiglia;
    un’esperienza da dividere con qualcuno che amavo, e una cosa che mi avrebbe sporcata per sempre, per cui ogni familiare non mi avrebbe più guardata in faccia;

    sarebbe stato scegliere quella cosa disgustosavergognosa, fatta per persone deboli, incapaci di controllare i propri impulsi più bassi, sopra la propria famiglia.

    Era chiedermi troppo, l’essere del tutto sincera. Avevo troppa paura.

    E adesso bestemmio, e lo faccio nel mio dialetto: dio-bròt-boia

    non fate MAI una cosa del genere alle vostre figlie.

    Alla fine, non scelsi io per me: scelsero i miei ormoni
    (mentre i miei neuroni, ancora se la combattono con una certa brutalità)

    e il sesso era strano, nuovo, e francamente… non tutto ‘sto problema.

    Non penso alle abilità di uno o dell’altro – che sono arrivate dopo un po’ – ma proprio in relazione al fenomeno: non c’era alcun terribile evento, ad attendermi dopo aver perso la verginità;
    sotto alle mutande di lui non c’era niente di strano, dando per scontata la curiosa anatomia dell’organo riproduttivo maschile

    alf

    Ripensandoci, mi sono chiesta se – in fondo – non fosse, colpa loro.

    Erano anni in cui si sceglieva se affondare o restare a galla: c’era poco tempo da dedicare ai più piccoli e si cercava di rendere più efficace e incisivo il messaggio, col minore dispendio energetico possibile.

    Ripensandoci meglio, ho pensato: CAZZATE.

    C’era gente messa uguale, che ha risparmiato anni di terrorismo psicologico e senso di colpa ai figli. E se i miei lo avevano imparato, perché a propria volta gli era stato insegnato così, potevano accendere il cazzo di cervello.

    Il fatto è che, più ripenso a queste cose, più rinforzo due effetti:

    da un lato, mi sento meglio. Instabile, confusa, ma meglio;

    dall’altro, man mano, perdo gradualmente ogni tipo d’interesse verso i miei familiari, parametro rispetto al quale mi ero sempre – involontariamente – definita.

    Chissà poi perché, considerato che esistevo nella misura in cui facevo qualcosa che andasse bene a loro e stop.

    E seguo questo processo accadere, con tutte le loro espressioni stranite e incomprensioni del caso, come fosse una cosa triste in sé, ma troppo lontana per riguardarmi.

    Mi interessano sempre meno… ed è strano e inaspettato, come quei calzini fatta a guanti per le dita dei piedi. Anzi: meno d’impatto, non è brutto e non dà fastidio.

    Oh beh, sarà che succede così a sentirsi dare della puttana per 15 anni.

    From the chandelier

    È la prima volta che lascio casa per molte ore di fila dall’inizio dell’anno.

    Non mi va, ma devo. Ogni tanto, scivolo senza accorgermene dentro pozze molto grandi.

    Il tempo fa schifo e la cosa non aiuta. Il cielo ha lo stesso colore dei miei incubi peggiori, quelli inquieti.

    Ho messo la sveglia alle sei solo per poterla rimandare all’infinito. Fino alle sette, ogni otto minuti mi sono svegliata e riaddormenta. Non mi piace quando inizia cosi.

    In autobus ho messo le cuffie ma la mia playlist farebbe suicidare Topolino. Ho cercato online per della musica “Pop”.

    Meglio, non per il panorama musicale mondiale, ma meglio.

    Il mio umore è migliorato, ho alzato la musica al massimo e Sia mi ha sfondato i timpani, ma va bene.

    Ho pensato, visto che sentivo la mia faccia cambiare espressione ogni quattro quarti, a quando M., anni fa, sentenziò estremamente convinto: “Tu sei pazza. Hai proprio perso il contatto con la realtà”. Anche lì, non mi sono arrabbiata, ma mi sono chiesta come un quasi medico pensasse che fosse una cosa sensata da dire a qualcuno di cui pensava una cosa del genere.

    Ultimamente l’ho pensato spesso, di rimbalzo, da quando mi ha scritto per comunicarmi che era morto suo nonno. Ho pianto, per qualche minuto.

    Magari, avessi perso il contatto con la realtà. No, c’è. È che mi fa schifo, come se qualcuno mi infilasse in bocca un copertone usato da masticare.

    Sia, pensaci tu.