Ieri ho ripensato a una cosa che mi disse M., almeno cinque anni fa.
Ci eravamo già lasciati da un bel po’, eppure – nonostante non sia successo niente di grave tra noi – il risentimento nei miei confronti non sembra sia mai esaurito completamente.
Stavo per scrivere “mi sbaglierò”, ma stocazzo: non penso di sbagliare, checché lui ne dica.
Comunque, gli avevo voluto raccontare che una psichiatra, mi aveva prescritto un farmaco.
Si trattava di un blando psicoattivo, un SSRI, indicato per la gente a cui si impalla la serotonina. Uno stabilizzatore dell’umore.
Più o meno nello stesso periodo avevo saputo che Mondo, nel giro di amici di M., attraversava un brutto momento di down, e gli avevano dato la stessa medicina.
Mondo è uno di quelli che, già a 15 anni, potevi immaginare come cinquantenne un po’ sgradevole, con la camicia troppo aperta e niente di interessante da dire, mentre ti si avvicina con il sorriso umido, offrendoti con veemenza guance olivastre e paffute.
Non il mio genere di persona.
Anni fa, sarei stata capace di dirglielo in faccia. E non quello che ho scritto sopra: la versione non filtrata, quella che ora so sarebbe davvero, davvero troppo.
È sempre un work in progress per me, capire cosa può ferire o no.
Riconoscere di avere un problema, in parte mi salvò la vita: ero gravemente insopportabile, prima o poi qualcuno mi avrebbe presa a pugni
(una volta trovata la via tra la cortina di lacrime, probabilmente).
Rendermi conto di essere perfino meno di altri, mi rimise bruscamente al mio posto, fornendo prospettive crescenti per tutte le aspre e frammentate schegge di personalità che mi componevano.
L’unica persona di cui ero figlia, nella casa in cui vivevo, non si era mai occupata di me, tutte le altre mi impartivano lezioni in pillole, slogan e assiomi implacabili.
“Quel comportamento è da puttana”
“Luilá è un deficiente”
“Quello è uno stupido”
“Roba del genere è da poco di buono”
Non biasimo i miei familiari, hanno fatto del loro meglio e per anni ha significato beccheggiare tra l’assoluto silenzio e la totale lapidarietà:
volevano che mia madre facesse la madre in termini di oneri o onori, fino a quando sbottavano esasperati dal suo disinteresse, e cercavano di correggere il tiro delle sue assenze, vomitando sentenze.
Sentenze, è tutto quello che ho sentito per quindici anni.
Oltretutto, tendevo all’isolamento.
Se mi fossi trovata più spesso in mezzo alle persone, forse avrei capito prima che nemmeno i miei credevano fino in fondo a quello che dicevano;
invece, i miei sforzi si concentrarono sulla ricerca di giustificazioni, per cui quei fendenti avessero ottime ragioni per essere menati.
“Ok, quello è un idiota perché ha fatto così, che è inaccettabile, chi gli da ragione sarà un idiota a sua volta. Se qualcun altro farà cose simili, sarà idiota in proporzione alla somiglianza…” e mi annodavo su cose così, senza mai mettere in discussione l’assunto iniziale ma girandoci attorno e ragionando da lì in poi.
Alle superiori studiai filosofia, ma scoprii la dialettica in terza elementare.
Considerato tutto il contorno, penso non abbiano avuto altra scelta.
Sto divagando.
Insomma, quando parlai con M., lui mi ascoltò con aria di sufficienza e la bocca piegata in una smorfia di disapprovazione, poi concluse con l’unico commento che si degnò di fare a riguardo.
“Ah! Sei come Mondo! Proprio come lui!”
Scelse di ripeterlo ancora e ancora, schioccando soddisfatto le labbra con finto dispiacere, alla fine di ogni frase. Lui sì che disprezzava Mondo, a me solo antipatico.
E nient’altro.
Non un “come stai”, “ti senti bene”.
Un po’ meschino, da parte di qualcuno a cui ho succhiato il cazzo per cinque anni.
Non mi arrabbiai.
Come mio solito, le opzioni andavano dal nulla all’esagitazione e mi ritrovai dalla parte del nulla.
Essermi sentita dire da una dottoressa che ne sapeva davvero, che non funzionavo, era stata una liberazione.
Quel quasi medico davanti a me, che cercava di ferirmi con l’accostamento più umiliante che potesse trovare, nervoso al punto di parlare a scatti e gesticolare disordinato, poteva al massimo fare pietà.
Mi ricordo di aver riso, a un certo punto. D’imbarazzo, per lui.
È stata la sera in cui ho perso qualunque stima per M., e ne avevo tanta.
Mi rendo conto a oggi che, da lì in poi, tutte le volte in cui mi sono sforzata di parlarci, sono stati goffi e vani – talvolta assurdi – tentativi di rivedere la persona di cui ero stata innamorata da ragazzina.
Quella di cui avevo tanti ricordi felici.
Ancora mi fa pizzicare gli occhi, a pensarci troppo che
quel ragazzo
da nessuna parte
esista più.