Fa ha sempre un volume entusiastico, quando ti saluta.
“Allora sei pronta??”
Annuisco, stoica.
Mi è venuto a recuperare in auto, stasera usciamo io e lui. Destinazione: Estragon, un capannone dove tengono concerti, a Bologna.
Non sono un’entusiasta di musica, né fan del gruppo in questione, ma erano anni che non facevamo qualcosa insieme, e lui è in uno di quei periodi in cui gli amici servono per distrarsi; settimane fa, mi aveva proposto questa cosa.
“Come sai, quando trovo i biglietti per un concerto che mi piace, li compro. Poi trovo dopo, chi mi accompagna. Tu hai voglia di accompagnarmi a vedere i Baustelle?”
“No”
“DAAAAAAAAAI!”
“Mh… ok. Poi oh: se trovi qualcun altro di più appassionato, cedo il posto senza problemi”.
Non lo ha trovato, quindi partiamo alla volta di strade larghe, nella ricerca di una birra da bere alla guida.
“G. ti ha poi raccontato?”
G. è sua figlia, adolescente, che a quanto pare è stata recentemente mollata dal suo primo ragazzo. Quando Fa me lo ha detto, aveva un sorriso tale che mi aspettavo un finale diverso, per quella notizia. Non so, tipo: “e alla fine, hanno fatto pace”.
Ma, per un papà che ha cresciuto la sua bambina completamente solo, il lieto fine è un nuovo sabato sera da passare con lei e tenerla abbracciata per cinque minuti.
“Ma cinque minuti VERI!!! Mi ha tenuto abbracciato cinque minuti! Come quando era piccola e cucinavo, con lei che non si staccava dalla mia gamba! E avevo paura di rovesciarle qualcosa addosso, che avrei rovinato lei e me in un colpo solo…”
Rido, immaginando la scena.
“Cinque anni di panini…”
“Si sì sì, al massimo roba al forno!”
Comunque, il ragazzino non ci ha ripensato, e G. non si è sbottonata troppo su come siano andati i fatti.
“Io le ho solo detto: guarda G., starai male, ti dispiacerà ancora, ma non fare lo zerbino. Tu, non sei uno zerbino”
“Mi sembra il consiglio migliore che potessi darle”
“Dai, metti su Amanda Lear!”
“Eh..?”
“Amanda Lear dei Baustelle, è una loro canzone!”
“Aaaaah”
Il resto del viaggio lo passiamo ascoltando canzoni, chiacchierando e bisticciando del più e del meno.
Uno degli argomenti che Fa ama tirare in ballo, è il proprio pisello; elemento che nella sua vita, prende un certo spazio.
“Basta, basta. Ho cinquant’anni ormai. Non ho più voglia, di trombarle tutte”
Effettivamente, ci ha trombate tutte.
Nel mio caso, si è trattato della storiella perfetta: ci siamo frequentati alcuni mesi, avevo poco più di vent’anni e lui quasi il doppio, poi ci siamo stufati nello stesso momento ed è sfumata senza bisogno di spiegazioni o chiusure. Come alcune canzoni.
Sarà per questo, che è stato automatico ritrovarci buoni amici, nel giro di poco.
“Ci hai mai contate?”
“Quelle che mi ricordo, sì”
Numero non spaventoso, ma rimarchevole.
Fa è stato per sedici anni con la stessa donna, motivo per cui non ha raggiunto cifre astronomiche. L’ha sposata, ci ha fatto una figlia, poi non è andata.
La figlia se l’è tenuta lui; la ex moglie, con i suoi lunghi capelli neri e il corpo slanciato, è tornata tra le braccia del suo primo filarino.
Prendiamo posto in uno stand gastronomico fuori dal capannone.
Fa non è bello, ma ha un suo gran perché (oltre al pisello), e a guardarlo interagire con la sciatta cinquantenne spettinata alla cassa, si capisce subito cos’è.
Ci sa fare. E alla grande: nel giro di secondi, gli occhi impigriti di lei si accendono. Non deve capitarle spesso, qualcuno che le si rivolge così: timido e suadente. Timido poi, tzé.
Il tavolo è triste e le porzioni scarse, ma la bottiglia di bianco riqualifica il tutto.
“Io la amavo, mia moglie. Ci sarei rimasto con lei, per questo l’avevo sposata. Ma in fondo lo sapevo che non era mia” ammette saggiamente. “Allora di mattina, quando mi svegliavo per primo, tiravo su appena appena la tapparella poi la scoprivo e restavo a guardarla nella penombra. Era bellissima… non puoi capire: era bellissima“.
Quando lo dice, spalanca gli occhi abbacinato e muove debolmente la testa pelata di qua e di là, come se – ancora – nemmeno lui riuscisse a capacitarsi, di tanta bellezza.
Accendo una sigaretta e gli parlo di lui. Fa ride, di gusto. Abbiamo questo in comune: quando ci piace qualcosa – una persona o un racconto o una canzone, se il clima è adatto – ridiamo. È contento per me.
“Ma, ma dimmi bene allora: con questo ragazzo, state bene?”
“Sì, mi piace stare con lui, e pare che a lui piaccia stare con me”
“Lo credo bene! Ma non farlo diventare matto eh, mi raccomando, che sembra proprio un tipo a posto!”
“Ma infatti dovevi venirci con lui, a sentire concerti”
Io, al quarto aneddoto sul tale chitarrista, sul certo festival, sulla nuova formazione di, ho cali d’attenzione prossimi al coma. Entrambi loro due, potrebbero andare avanti per ore.
La signora sciatta ogni tanto si affaccenda inutilmente attorno a noi, e capisco che ci guarda di sottecchi. Probabilmente è curiosa della natura del nostro rapporto, forse è quasi gelosa che il tempo per le lusinghe da dedicarle, sia stato tanto breve. Forse, se si facesse la tinta, ne riceverebbe più spesso.
Procediamo e mette in dubbio le mie capacità culinarie – l’uomo capace di mettere i Fonzies nel brodo – mi inalbero, ribatto e l’ora di entrare si avvicina.
“Dai dai dai, bevi e andiamo!”
“Sì ma stai calmo”
Il concerto è carino. Il mio grado di coinvolgimento è tale per cui non mi accorgo che il duo spalla che apre, è un duo spalla.
“Ah, non sono loro…?”
“Sì vabbè, buongiorno eh. Andiamo a prendere da bere”
Poi iniziano davvero. Bello spettacolo, bravi musicisti, canzoni piacevoli.
Due tizi mi si parano davanti, dandomi le spalle a un centimetro dal naso, domandando l’uno all’altro se sia meglio guardare da lì.
Fa, con amichevole cavalleria, suggerisce a voce alta: “Beh magari proprio lì no… MA CIAO!”
Esplode nel saluto per uno dei due, un ragazzo sui vent’anni che sorride di rimando.
“Hey!”
“Ma lo sai Tazza, chi è ‘sto ragazzo?? È quello che ha salvato la vita a me e al mio amico l’altra sera! Lavora al ristoro, e noi gli abbiamo chiesto di portarci ogni ora una birra media, nella folla sotto al palco, ogni-ora. E lui ce l’ha portata! È stato bravissimo!
Oh-oh-oh! Questa mi piace!”
In questi mesi, Fa ha visto un sacco di concerti. Perché lo aspetta un periodo intenso, intensamente negativo: un’operazione, una convalescenza frustrante, un pisello ferito.
Allora lui va ad ascoltare tutti, a conoscere tutti. Non ha più voglia di trombarle tutte.
Il concerto finisce, beviamo ancora e poi saliamo in auto verso casa.
La radio riporta la colonna sonora più nelle mie corde; almeno: in quelle dei miei diciassette anni.
Poi, prima di arrivare sotto casa mia, prima di aprire le chiacchiere conclusive (famiglia, amori, X-Men) mi dice che manca ancora una tappa: la costruzione fatiscente che avevamo superato sulla sinistra, poco dopo la partenza.
All’altezza giusta, svolta per uno stradello sulla destra, fino a raggiungerla.
Di giorno, è così:
Ma noi ci passiamo di notte, ed è una cupola chiara nel buio finto di lato a una strada extraurbana che taglia metodica la periferia.
“Adesso ascolta eh”
E non so cosa, ma al suo “AH!” gridato verso l’alto, un eco frammentato rimanda la sua voce moltiplicata in centinaia di onde ordinate.
“Figo cazzo!”
“Hai visto? Figo sì!”
Restiamo un altro po’, a fare del rumore, e ancora e ancora e ancora rumore, versi improbabili di nessuna canzone. Un passo oltre alle colonne, l’eco non si sente più.
La scorsa settimana, mi aveva raggiunta un messaggio di raduno famigliare, schieramento Padre:
“Domenica la nonna si sposa e vuole che ci siamo tutti”
Padre va interpretato: l’anniversario, 60 anni.
Quindi domenica, in ritardissimo per una serie di motivi assolutamente prevenibili, ho raggiunto il paese, perso un mucchio di tempo, fatto tappa dal fiorista e una corsa fino alla chiesa.
Va da sé: ci sono arrivata ridotta a grado schifo, ma tanto la chiesa fa schifo a me, quindi pari e patta.
Rimane che entrarci ha come sempre significato piombare in uno scenario immerso nei ricordi.
In parte, per l’essere cresciuta nella parrocchia di un paese dove ci si conosce tutti,
in parte perché stavolta, superando la porta, mi sono trovata tra Lu e Gu che ormai sono alti.
E per fortuna non sono tipi vendicativi: una volta, tra i miei compiti, c’era il rincorrerli e picchiarli per i cortili dell’oratorio e, se con Gu forse potrei ancora giocarmela (o almeno sopravvivere), Lu vincerebbe a mani basse. Erano miei bambini a Estate Ragazzi. Gu è il più giovane, ha sei o sette anni meno di me. Questo rende possibile scroccargli la presa di tabacco per una sigaretta e allo stesso tempo ricordarlo secco scricciolo delle scuole elementari. Aveva gli occhi spiritati, un sorriso da castoro e l’insana capacità di suscitare istinti omicidi in qualunque essere umano. Poi però faceva troppo ridere, con quello sclero sempre addosso. Ora è un ragazzo un po’ punk ma anche a modo, a parte l’orrida treccina che, grossomodo, sembra coltivare dalla terza elementare. Contando che ha 23 (22, 24? Non ricordo) anni, probabilmente si avvicina il momento in cui l’abbandonerà. Lu ha 4 o 5 anni meno di me, non ricordo. Secondo me, è bellissimo: mi suscita immediatamente la cotta della prozia. Lo ricordo preadolescente, o come si dice quando tu hai 16 anni e qualcun altro ne ha circa 12. Un abisso, all’epoca. Aveva sempre quell’aria di sufficienza stampata tra occhi e naso, e a dirla tutta mi stava un po’ su.
Nel tempo, a blocchi di anni, l’ho visto cambiare. Per chissà quale ragione, le volte in cui ci si incrociava, si fermava a salutare. E io mi ricordo un suo vecchio cappello. Mi sono sempre fermata anche con il fratello, ma quello ci sta: l’ho picchiato di più.
I due mi hanno salutata, Lu mi ha chiesto se non avessi paura di sciogliermi a entrare lì.
Ho biascicato qualcosa ma l’importante era altro: c’era ancora tempo, dovevo uscire al volo, recuperare i fiori ordinati. Su e giù per la via, compaesani confusi si guardavano di sbieco al mio atletico passaggio.
Avete presente, come ci si senta sempre meno sfigati dentro, di come alla fine si risulta da fuori? Beh, la sensazione che avevo, di correre in modo almeno decoroso, temo fosse ingenua illusione.
Comunque, presi e pagati i fiori, via di nuovo di corsa alla chiesa, accaldata, sudata. Lu e Gu erano usciti a prendere aria ma io dovevo entrare, allungare i fiori ai nonni senza rullare nessuno nei corridoi gremiti, incrociando le dita per essere in tempo.
Missione compiuta! Non li avevano ancora chiamati!
I miei nonni odiano essere fotografati, il nonno finge sempre che non stia accadendo
Ovviamente non mancavano pochi minuti al loro turno per andare all’altare a ricevere la commemorazione, ma tipo un’ora.
“E ora le coppie che festeggiano un anno!”
Ma cosa caz c’è da festeggiare a un anno dal matrimonio??
Almeno ho fatto cardio.
Mi sono messa buona buona, insieme a Zio, Sorella e relativa Mamma Cri, Padre (in ordine di incontro) ad applaudire forsennatamente a intervalli sempre più brevi, per le coppie chiamate, nella speranza di accelerare il ritmo della cosa. Speranza vana.
Almeno ho fatto braccia: un anno, dieci, quindici, venti, venticinque fino a sessanta poi sessantadue anche. Più di una coppia, per lustro e biennio.
Al momento di uscire, volevo proprio una sigaretta. E un gatorade. Lu e/o Gu sulla sigaretta potevano aiutarmi. Ricordo vagamente che forse Lu ha smesso e neanche so, perché lo so. Ma Gu è giovane, fuma ancora, sicuro. Mi appioppo e li seguo, menzione d’onore al loro, di nonno, che sulla porta sferza la chiappa della consorte, la quale ottant’anni non so dove li abbia messi: non li aveva di certo portati con sé.
Chiacchieriamo di nulla, arriva mio padre. Padre aveva riconosciuto i nonni dei ragazzi, e ad un certo punto molla labbomba, il colpo di scena! L’acme di ogni riunione sociale dalle mie parti: siamo parenti alla lontana.
Non so voi, io imparo d’essere parente di qualche compaesano almeno tre volte a settimana da quando ho memoria. Altro che sardi. Uno dei miei bisnonni aveva 12 fratelli, l’altro 7, tutti si sono abbondantemente riprodotti qui in zona, quindi…
Lu e Gu, che sono abbastanza carini da simulare, si mostrano entusiasti, specie perché Padre rivela di avere, nascosta chissà dove, una foto che ritrae sia lui che la loro madre piccoli piccoli, insieme alle rispettive genitrici.
“Dopo la cerco”, dichiara. “Scambiatevi i numeri che poi ve la manda”. Lu mi dà il numero, si va tutti a casa.
Mangiamo – parte che normalmente si svolge in pace – e alla fine del pasto, il tema su cui litigare, rispetto alle altre occasioni è una novità: le foto sono troppe, non la troveremo mai, lasciamo stare da un lato (squadra Zio) beh le sfogliamo insieme, vedete che la troviamo dall’altro (squadra Padre)
I miei parenti hanno una sorta di tradizione per le ricorrenze: litigare il più possibile. So che è una pratica diffusa anche altrove.
Comunque loro, sapendo che succederà, si sentono tranquilli solo dopo essersi rovinati la giornata a vicenda.
Una vocina dentro li avverte: “Ehi attenzione, si sta pericolosamente navigando nell’area comune delle vostre opinioni, su un ipotetico campo minato a diagramma di Venn. Si raccomanda diversiva a dritta e prendere bene tutta la distanza che c’è!”
Se si va d’accordo troppo a lungo poi, c’è il rischio di posticipare troppo l’inizio della rissa, che per farla bene dopo serve prolungare il tempo insieme – che fai vuoi lasciare una lite a metà? Senza contare che l’attesa li uccide. Insomma, va tolto il pensiero.
Questa volta, ispirata dal rallegrante effetto dei ricordi, decreto e annuncio – con un giocoso aumento di volume che penso abbia divelto alcuni pali della luce – cosa faremo:
Inoppugnabilità, incisività ed eleganza, dal mio ululato colpiscono sui denti tutti gli astanti come una stilosa borsettata Chanel e, abbacinati dallo sfoggio di logica, Zio e Cugino dalla fazione del No!, eseguono.
Avevo avvisato Lu che non avremmo mai trovato “la foto di famiglia in questione” vista la mole di immagini a disposizione. Lui aveva risposto con uno scatto di loro fratelli insieme ai nonni: “Ecco la prima”. Al giapponese. La mia cotta da prozia lì ha raggiunto la vetta: obiettivamente adorabili.
E niente, ci siamo immersi.
Le foto erano davvero tante, abbastanza da coprire il nostro campo di battaglia.
Hanno nascosto le caselle, non potevamo più affondarci.
Siamo rimasti così, seduti qualche ora, a rivedere persone che mancavano da un po’, a presentarci ad altre, che non avevamo mai visto.
La nonna odia questa sua foto da bimba, invece le piacciono tutte quelle dov’è con il nonnoQui ci sono i passati di più persone di quante pensassi
Mia nonna è quella davanti con la giacchetta aperta, il ragazzo a destra era il tabaccaio della via principale, che mi vendeva le Super con filtro a stecche. Ma il filtro mica c’era. Erano per la mia bisnonna, squadrone Madre però.
Non avevo mai saputo che fosse stato così giovane e bello.
Tra gli altri attorno, ce ne sono troppi uguali-uguali a persone che conosco, non c’è bisogno di specificare chi siano i loro discendenti.
Ho visto anche molte foto di me
Sembrano foto degli anni ’70, ma era il 1991, a occhio e croce
In particolare, sono una di quelle che mi ha fatta più felice è questa:
La bisnonna e la nonna. Un’amica a cui l’ho mostrata mi ha chiesto: “E la bambina chi è?”
Ce n’è stato per tutti: mio nonno da giovane, mio padre da piccolo, mio zio da sfigato (l’ultimo a destra).
Poi ovviamente, abbiamo trovato la foto, che quasi tutti ci eravamo dimenticati di essere lì per cercare.
Mia nonna è a destra che regge Padre
nel mezzo la mamma di Gu e Lu, con la loro nonna
gli altri non so, forse scoprirò di essere loro parente un’altra domenica.
Ed è stato proprio bello. Davvero. Eravamo un po’ tutti commossi e non lo ammetteremo mai.
Ho ringraziato molto Lu. Pure troppo, come faccio sempre quando l’entusiasmo si fa contestuale ad un aperitivo con lo stomaco molto vuoto: sgraziata e ubriaca.
Prima di addormentarmi, la mia personalità dodicenne ha cancellato la conversazione. Perché si vergognava, di cosa poteva aver inviato via Wapp, mentre per strada alle tre di notte chiacchierava con norvegesi appassionati di Dante e londinesi vestiti di nero. La sveglia alle 6.20 è stata terribile. Punizione proporzionata ai deliri virtuali.
Ho scoperto che mio nonno si sentiva molto bello. Esibiva scatti con una certa vanità: “Guerda que, fàti gamb” diceva sventolandosi, secoli fa in costume. Mentre “figurino” si sentiva da ritratto col vestito color… cacca? Ma la foto mostrata forse con più orgoglio è stata questa al centro, lui e mio padre, forse l’ultima volta in cui si sono abbracciati. Eh, c’est la vie, specie quando hai una testa di merda. Entrambi. Anche i bisnonni, non li vedevo da un po’. Li penso spesso, ho il terrore di dimenticare.
La nonna, quando siamo tutti insieme, sorride sempre.
Il nonno mai, a meno che io non dica qualche maialata che lo diverte, e lui è burbero e silenzioso e si vedeva che quelle fotografie tutte insieme erano tanto. Mi pizzicano occhi e naso anche ora a scriverne e sono come lui.
Quindi io e Sorella ci siamo messe a fare brutte facce nelle foto e a mostrargli i risultati.
Lui sbuffava una risata e diceva “Um cunsòl“. “Mi consolo”, nel senso che riusciamo a essere più brutte noi.
Gli è piaciuto lo scatto preso poco prima di uscire dalla chiesa, il terzo.
Non so bene come concludere perché di fatto non mi va: resterei ore a ripensare a domenica. A come stavo ieri no, per niente, ma quello è stata colpa dell’aperitivo dell’ultima di campionato e della sveglia implacabile. Cioè, colpa mia.
Bello, è stato bello. Lu e Gu sono stati la casualità che ci voleva. Mi hanno fatta contenta.
Ed era davvero molto tempo, che non mi piaceva tanto parlare – o scrivere, vabbé . Strano, come ci si possa vergognare tanto per essersi mostrati scioccamente infatuati della magia che qualcuno, casualmente, butta dentro una giornata.