I concetti di colpa e responsabilità perdono di significato all’aumentare delle dimensioni dell’evento a cui sono riferiti.
Un litigio? Dei malintesi? Intere esistenze?
Si allarga l’orizzonte e questi significati mano a mano, rimpiccioliscono.
Allora diventa una scelta, fatta più o meno consciamente, serbare rancore per un giorno passato, restare arrabbiati da un appuntamento mancato, piangere ancora e scegliere indietro.
Fin da bambina, il centro dei miei pensieri era la domanda: “Perché?”
Il motivo chiariva, tranquillizzava; identificarlo dava – ogni tanto – la possibilità di gestirlo, modificarlo. E, quando non riusciva, di odiarlo.
Senza prendersela con le persone.
Perché non posso? Perché i miei genitori non sono mai con me? Perché il nonno è morto? Perché a scuola non riesco a stare con gli altri? Perché ieri mi avete sgridato? Perché oggi mi avete sgridato per il contrario? Perché sto sempre da sola.
A volte mi chiedo se essere stata una bambina precoce non mi abbia remato contro.
Crescendo, la rete di salvataggio dei perché mi si è stretta addosso: io ero l’orizzonte, e la fila di piccole domande un brulichìo di insetti impossibile da gestire, che mi camminavano sopra e entravano dentro. Tutti ce li hanno, ma non ci pensano sempre.
Perché la mia vita è stata quel che è stata, fino adesso? E che importanza ha, in termini di responsabilità?
Senza che me ne accorgessi, la miriade di bestioline ha preso la forma di un giudice implacabile, e gira e rigira, il colpevole ero sempre io.
Il fatto che la vita sia un processo non deve voler dire a ogni passo una sentenza.
Guarda quanto fotte il cervello dei bambini, la semantica.