Potrei pure pensare ai fatti miei eh

Chissà come sono, le persone che incrocio.

Siedo al tavolo di un bar e vedo una donna tutta intenta a sfogliare una rivista, con gli occhiali sulla punta del naso e una mise anni ‘90 che non ha speranza di tornare di moda, in nessun ciclo d’abbigliamento mai;

allungo lo sguardo fuori dalla finestra, come se potessi deviarlo sinuoso, per farlo passare a nastro d’atleta tra i palazzi che mi coprono il tramonto, e in uno strabuzzo per nulla elegante noto accidentalmente una coppia mesta, affaccendata tra le tende della stanza;

comincia ora a piovere e una donna in maglietta sguscia lesta tra gli sprazzi che io vedo in fondo alla strada, si copre la testa e porta una borsa in tinta con una maglia annodata attorno al collo.

Chi sono queste persone?

La signora è convinta, come sembra, della sua direzione e di quei capelli taglio tragedia?

I due tra le tende, che un po’ di vento scosta, sono tristi per qualcosa di diverso da loro?

Quanti anni ha quella donna, e quanti ne ha usati bene?

A volte certe cose me le chiedo per riflesso, avendo mai avuto un fermo al calcio che scatta da solo, altre me le chiedo per davvero:

la riccia mora, del palazzo di fronte all’ultimo piano, è contenta delle sue giornate?

Gestisce una cartoleria con la suocera. La gestiscono male, perché di prodotti della categoria ne sanno come so io di aeronautica, però con meno umiltà (almeno io non vendo aeroplani), e abita di sopra alla suocera, insieme al compagno – col quale sta da almeno 20 anni – con le camere da letto grazie al cielo separate da quella di una coppia di vecchietti che coraggiosamente si frappone tra i due (appartamenti). Non metterò mai più piede nella loro cartoleria: mi hanno venduto un pennello di merda.

Conosco più o meno la stagionatura della sua relazione perché giocavamo insieme a pallavolo da ragazzine, lei ha qualche anno più di me e io diversi cm in più di lei. Lei alzava e io schiacciavo (molto male, a onor del vero, mentre lei era brava ad alzare). È da che me la ricordo che sta insieme a quel tipo con la faccia da maiale. Una volta aveva solo la faccia, ora anche il resto pare via via sempre più accurato. Però mi ricordo che era gentile. Chissà se negli anni è cambiato… beh dubito di poterlo verificare di persona senza una bias negativo, dopo che ho urlato a suo padre qualcosa tipo “AH TOSI LA SIEPE ALLE SETTE DEL MATTINO PERCHÉ SAI DI AVERE POCO TEMPO EH, SPERIAMO”.

Anche il padre di quell’omaccione porcino vive due piani più giù, ma è talmente inutile e sgradevole alla vista che se puoi evitarlo lo fai.

Ma chissà: entrambe quelle coppie sembrano abbastanza riuscite, abbastanza per rimanere insieme per decenni e decenni, abbastanza felici, specie se non hanno una dirimpettaia incazzata come una iena che urla loro dalla finestra.

Chissà cosa pensano, prima di dormire, le persone.

Refolo

Ogni tanto mi si appanna qualcosa.

Si appanna, scompare come qualcosa di mai esistito ma sai che è una bugia della mente: c’era, fino a due o trecento minuti fa, e d’improvviso sparisce. Sparisce senza che tu te ne accorga, come i morti quando sei bambino.

Le colonne vanamente slanciate del supermercato in periferia, un semaforo col singhiozzo della sera; nel parcheggio dopo il tramonto solo i mostri a braccetto senza denti, ragazzini in bicicletta, io e quell’aria crudele che non mi dice più niente. La stessa aria delle notti se in estate pedalavo fino fuori dalle mura medievali, che colpisce la pelle sempre allo stesso modo; non importa la direzione: riporta sempre nello stesso posto, quello che non esiste più.

Ha smesso di trasportami, ha smesso di pizzicare fino a sentire la malinconia pungente di un tempo e il resto del giorno lascia spazio alla malinconia di un altro.

Non avevo mai sentito insistere sulla pelle la malinconia del futuro, mano a mano che le sue mura di carne e ossa crollano in avanscoperta e la diga si schiude. Un’angoscia più tetra, più triste e inevitabile.

Di tutti i tempi conosciuti, il futuro è l’unico da cui non esiste via di fuga.

Dolore e no

A distinguere una ferita improvvisa da un malessere cronico, è il dolore.

Vale in medicina, vale in generale: il dolore accompagna il danno subitaneo, rapido;

l’alterazione che si instaura in modo lento e subdolo non la riusciamo ad avvertire ma produce un danno cronico, protratto, capace di causare alterazioni determinanti e irreversibili.

È una distinzione crudele e ipnotica, se ci si ferma a pensarla: il dolore è capace di suscitare solidarietà ed empatia, enormi rispetto alle briciole che una situazione protratta accende.

E così la condizione che più spesso è facilmente reversibile, quella improvvisa che causa il dolore, riceve ondate d’attenzione e presenza

mentre le condizioni radicate, lente, che generalmente producono danni tanto più vasti e profondi, passano inosservate.

È così in medicina, è così nei rapporti umani, è così nei sentimenti.

Pensicchiavo

Quello che Zack, o Zap, o come ho chiamato lo psicocoso, definisce “mente iperproduttiva” (non in accezione utile, anzi) lo colgo appieno solo quando sono per i fatti miei. Intendo completamente sola, per giorni interi.

Ho letto tre libri in 70 ore, interrompendo solo per dormire, ho scribacchiato, ho disegnato, ho letto roba che dovevo leggere, ho persino lavato i piatti.

Poi vi racconterò dell’appartamento-accampamento in cui vivo: una roba da ufficio d’igiene, ma voglio che sia così e voglio starci dentro. Voglio che mi salga l’esigenza di sistemare, e sta funzionando. Mi sto esercitando a trovare un ordine disassato che deve sia entrare che uscire.

Prima, isolata da diverse ore, pensavo a quanta fatica ho sprecato negli anni per interagire con altre persone. Era sbagliato non farlo, era da asociali non farlo, era da presuntuosi non farlo, quindi lo facevo. Credo sia buona parte del motivo per cui ho sfiorato – eufemismo – l’alcolismo, per oltre un lustro.

Mi ero convinta che gli altri avessero ragione, è dato che io sbagliavo mi dovevo adattare. Ma sono sempre stata una da legami a poche persone. Ce ne sono tante che penso spesso, che apprezzo, e vedo volentieri un paio di volte all’anno. Altre, le penso e le apprezzo, e se non le vedo sto bene lo stesso. Mi piace troppo internet, perché è un ipertesto interattivo in cui vagare, assecondando gli sbalzi del mio cervello (però non troppo, ho quasi imparato) e basta.

Stare soli e sentirsi soli sono cose diverse. A questo punto, avrei potuto bere sola – direi – anziché fuori, in mezzo a maree di persone faticose. Mi sono anche divertita, sono stata anche bene, per quello che mi ricordo. Ho dei bei ricordi: sprazzi dall’odore pungente, saltelli sgraziati in mezzo alla gente, serate sincopate e scopate di cui parlare ridendo con le amiche.

Dico solo che, col senno di poi, potevo evitarmi molte fatiche.

A voi succede?

Mi sento strana.

A parte qualche rogna prettamente fisica di cui – stavolta – dovrei venire a capo senza diventare cretina rincorrendo specialisti

(e che potrebbe essere qualcosa di dall’estremamente insulso all’estremamente orribile, ah!, che gioia essere testata da uno specialista della materia che stai studiando per il prossimo esame)

mi sento rimbalzare da uno stato all’altro – da una personalità all’altra – ogni dieci minuti, nell’ultimo mesetto.

Gestibile eh, niente di drammatico: penso una cosa e sei varianti del contrario al secondo, con un esito regolarmente indifferente.

È così, potrebbe essere colà, comì, più o meno suppergiù, quindi? Quindi sticazzi.

Ma queste palline sempre in moto che collidono tra loro senza causare grossi danni, non li ho solo io, vero?

La mia amica dice che lei non riuscirebbe a pensare costantemente (di recente ho provato a dirle ad alta voce le cose che mi passavano per la testa mentre l’ascoltavo, che neanche sono tutte perché posso pensare due cose insieme ma non vocalizzarle). Le ho risposto che lei ha una vita certamente più indaffarata della mia, con bambini e un ménage impegnativo. Mi ha risposto che non pensava così tanto neanche quando il massimo che doveva organizzare era andare a ballare nel weekend.

Alck nemmeno pensa come penso io.

Ho bisogno di conoscere persone nuove. Non perché non sia contenta di quelle che ho nella mia vita, bensì per la riduzione di interazioni che ho impostato poco prima della terapia.

Anni fa, quando ero io la pallina incontrollata che sbatteva nelle pareti del mio cranio, mi distraevo saltando da una persona all’altra, da una curiosità all’altra, da un’interpretazione all’altra. Mi manca il gioco di inquadrare le persone. Quindi tornerò a farlo, un po’.

È l’unica cosa che mi ha sempre interessata abbastanza da sedare il disordine dei miei pensieri.

Dato che mi ci vorrà qualche giorno per l’aperitivo abbozzato con una persona nuova, se vi va, ditemi un po’ cosa vi passa disordinatamente per la testa.

Letti

C’è il signore sorridente che non si capisce bene cosa macchini, dietro la sua espressione cerosa, con il cuore rotto dentro;

c’è la giovane donna con l’aria di una ragazzina che ci accoglie sorridendo, mettendo su la faccia furba di chi spera in un dolcino, siede a gambe e dita incrociate sul letto con i polmoni in subbuglio per la voglia di tornare a casa;

c’è la signora con la lingua che taglia e cuce, non abbastanza per richiuderle le piaghe ma più che a sufficienza per fare la spia su quanto poco mangi la donna adagiata sul letto di fianco. La donna adagiata galleggia su una coltre di lunghi capelli grigi striati di bianco a circondare un viso da opale, spalle sottili e mani affusolate e guarda in cagnesco la chiacchierona. Solo una delle due vivrà, a meno che qualcuno non le molli una comprensibile padellata tra capo e collo;

c’è il signore allegro e gioviale, a guardarlo in faccia sembra un po’ un ragazzino e un po’ il Doc di Ritorno al Futuro, a guardargli le gambe c’è da mettersi le mani nei capelli e lui non ha chiaro che quello è l’ultimo dei suoi problemi. Il primo, stando alla sua anamnesi e agli occhi lucidi, penso sia avere solo una casa vuota ad aspettarlo.

Ci sono molti letti, in un grande ospedale, tante persone con i loro pensieri che si aggrovigliano e si diluiscono fino a disfarsi, come l’odioso gel disinfettante sui palmi, in cui tuffiamo le mani tra una sponda e l’altra;

c’è la minuta dottoressa svelta come una scheggia, a cui un’anziana sdentata e sempre meno allegra continua a domandare quando arriva “il dottore”, che passa in rassegna l’esterno e l’interno dei suoi pazienti e tiene i suoi pensieri chiari, netti, fuori dal groviglio in cui si perdono anche i miei.

L’Infinito

Ho sentito chiamare il mondo, l’esterno da noi, “l’Infinito”.

Che strano: a me sembra tanto piccolo e ripetitivo, da non poter condividere neanche una frazione di questa definizione

mica per l’esterno – hai voglia, a definirlo -, solo perché può esserci qualunque cosa là fuori

ma noi siamo vicoli ciechi, piccole parentesi tonde capaci di gonfiarsi come palloncini da valvole standardizzate, fino a un volume massimo.

Se esiste qualcosa di infinito, noi non l’abbiamo mai visto
né siamo fatti per riuscirci.

1 – Le coppie svuota-frigo

Voi le avete presente?

Non parlo di coppie sovrappeso: le svuotafrigo sono le coppie di rimasugli.

Gli ultimi della compagnia allargata

i due ancora single alla fine dell’università

l’amico/a che la coppia-lungo-termine cerca di appioppare a ogni nuova conoscenza, animale vegetale o minerale che sia.

Generalmente, gli appartenenti alle coppie svuota-frigo si dividono in 2 categorie:

  1. I forzati quelli che non hanno sufficiente autonomia psicologica per ammettere che preferirebbero stare soli o in una relazione omosessuale e così cedono alla pressione sociale
  2. Gli insipidi insulsini, noiosini, senza caratteristiche spiccate tranne la trasandatezza, può capitare che solo per timidezza attendano di rimanere gli ultimi: troppo ardito!, farsi avanti, anche se l’assortimento finale era scritto da sempre.

Ho tre esempi principali di coppie svuota-frigo, che non hanno la pretesa di essere rappresentativi di altro se non della mia – perplessa – esperienza di spettatrice.

I cisaroli probabilmente gay:

per chi non li conosce, sembrerebbero due insipidi, ma la banalità del loro pregresso non si può tralasciare e li passa rapidamente alla categoria forzati.

Entrambi cisaroli, entrambi legatissimi per decenni ad amici dello stesso genere, fattisi troppo grandi per continuare così, si sono accoppiati tra loro (senza essersi mai considerati per il ventennio trascorso), tagliando brutalmente i ponti con gli inseparabili compari di poco prima.

Sounds like paraculata to me.

Comunque, ora hanno capelli precocemente grigi, figli molto carini e non li ho più visti sorridere a tutta bocca, da quando le loro amicizie storiche sono state seccamente concluse.

I bruttini vendicativi:

privi di qualunque caratteristica interessante, finiti assieme per mancanza di alternative dopo aver investito quindici anni della loro vita in una compagnia di numero pari, questi bruttini vivono la loro rivalsa cercando di essere il più sgradevole possibile, con chiunque tranne con chi li potrebbe piallare all’istante.

Il fatto che siano bruttini salta per forza all’occhio, ma il punto è che sono degli stronzetti sgradevoli e frustrati che trovano unica rivalsa nello sminuire il prossimo. L’aspetto fisico è l’ultimo dei loro problemi ma gli si confà.

Mostrano aperta avversità al lavaggio dei denti.

Si riproducono a ritmo murino e potrebbero evitare, visto che poi non hanno di che pagare lo stipendio ai dipendenti dell’attività che si regge unicamente grazie alla loro – bistrattata – presenza.

Se non se li era cacati nessuno, un motivo c’era. E non era la faccia.

Il misto male: un forzato per convenzione e un’insipida per mancata fiducia in se stessa

lui, dopo aver dissipato soldi, tempo, energie e occasioni lavorative, dato che pippare s’era fatto costoso, decide di mettere la testa a posto e cioè appiopparsi a qualcuno che un minimo lo faccia vergognare quando è il caso

lei, che non ha saputo o voluto darsi valore, corona l’illusione di impalmare l una delle sue cotte adolescenziali, accontentando l’orologio biologico.

Producono una figlia che cresce felice e grezza come una badilata di terra su un muro bianco, e questo è grossomodo tutto quello che so di sua moglie e “mio padre”.