Sembra ieri invece sono scappati otto anni, cinque dei quali mi avrebbero vista annegare, senza una boa ovale a cui attaccarmi, che giocassi o meno, mentre gli ultimi tre hanno scandito un’attesa da spettatrice, di cui non avrei mai augurato a nessuno l’essere protagonista.
Ogni tassello di quel periodo è avvolto da un senso di gratitudine forse sproporzionato ma sincero, per quanto marginale potesse essere rispetto alla situazione generale. Io e Faggio originale non avremmo avuto granché in comune, se fossi stata ribattezzata diversamente. Invece, ogni volta che ci trovavamo contemporaneamente nello stesso spazio fisico, a forza di battute e sciocchezze, si era diventati un binomio istituzionalizzato e, anche nel periodo in cui lui aveva giocato altrove, l’uscita classica consisteva in: “Ehi ciao Faggio! … ma Faggio Uomo, come sta?”
I siparietti che ci cucivano attorno, i battibecchi sul furto del nome e un paio di serate in cui l’alcol e le cazzate l’avevano fatta da padroni non erano bastati a farci amici, ma buoni compari.
Per una che non ha mai amato il contatto fisico, finire per caso in un universo sportivo in cui la pelle è coinvolta quanto i muscoli e la testa, ha reso l’esperienza totalizzante. Persino i miei amici al di fuori se ne sentivano coinvolti e avevano passato con giocatori e giocatrici diverse nottate in giro per bar.
Così, quando stavo preparando un esame abbastanza breve da essere superato nonostante le mie ridotte capacità mnemoniche, un amico – già specializzando del reparto corrispondente – mi mostrò sconvolto un reperto insindacabile.
L’esame che stavo preparando era Diagnostica per Immagini, al secolo “Radiologia“, e quello che avevo davanti agli occhi, se avesse rappresentato qualunque altra cosa, sarebbe apparso come una riproduzione di parte del cosmo.
Fin da bambina le immagini dallo spazio mi rapivano e incantavano, mi facevano sentire minuscola e importante: nonostante le ridotte dimensioni umane, era incredibile che potessi vederle; più tardi, avevo osservato a bocca aperta i poetici accostamenti che riviste divulgative mostravano, tra cervello umano e galassie lontane.
Tutte cose cadutemi in mente come da una rampa di scale, guardando un cielo stellato che altro non era se non una tac cerebraledi un giovane uomo di 33 anni
e mentre ne scrivo, mi avvio al funerale.
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