Il giorno successivo all’ultimo post, la chiamata con l’amico era andata bene. Sospettosamente bene.
Quello che secondo me i depressi non riescono ad accettare – e da facente parte della categoria, pur priva di complicazione psicotica, mi associo – è la ricaduta.
Nei momenti di ripresa, il sollievo per il recupero della propria funzionalità, della presenza al mondo e dei ritrovati desideri verso il vivere sociale, deflagrano nel petto con tale tepore che i nuovi segni di freddo cedimento passano sotto silenzio. Che vuoi che sia, ci siamo chiesti tutti, prima che la malattia trovasse il tempo di rispondere.
È che non ce la si fa a rialzarsi ogni volta, con la necessaria fiducia verso la terapia e i farmaci.
Una ricaduta, poi di nuovo un senso di benessere, poi una nuova ricaduta, poi un aggravio… si smette di crederci, al poter stare bene. Le gambe perdono la spinta al portarti dove vuoi, perché non importa dove sarai: il tuo cervello ti tradirà ancora e ancora, e ancora.
Mi piace stare al telefono mentre faccio la spesa, a dispetto delle inevitabili dimenticanze che comporta, così per me è abbastanza frequente telefonare agli amici per due chiacchiere, tra uno scaffale e un’imprecazione per il lievito introvabile.
“Dai, non demoralizzarti troppo”
“Ma che vita è questa? Sono stanco…”
“È la vita che al momento sta subendo la gran parte della popolazione! Approfittane! Pensa che ci sono tanti, anche se per motivi diversi, costretti a rallentare, che si trovano nella tua stessa identica condizione o nella mia. Hai l’occasione per vederla come una tabula rasa”
“Sì…”
“Cos’è che ti piacerebbe fare? Scegli una cosa e inizia, anche bestemmiando, mettitici di fronte e pensa a quali desideri ti vengono in mente!”
La chiamata è stata lunga e avevamo già parlato di altre cose: il rapporto con gli amici, la mancanza di qualcuno con cui dividere l’esistenza, ma sono fermamente – forse troppo – convinta che non si possano delegare agli altri gli obiettivi della nostra felicità; o far affidamento sull’altrui comportamento per giustificare la perdita della voglia di lottare. Tutto lineare, a parole.
Ma i fatti sono diversi.
Nella realtà, la mente continua a correre verso il punto di sollievo più vicino. È economia biologica, una forma di bilancio umano che deve tener conto di una quantità finita di energie.
Nella realtà di un depresso, i propositi possono galvanizzarti un giorno, l’esperienza fidata di una strana amica lontana hanno un’eco che si spegne presto.
La realtà di un depresso è un inferno di neuroni dirottati.
Così, chiusa una telefonata densa di fiducia, suggellata da una voce contenta e qualche risata, il mattino successivo è tornato a ricordare che le belle parole possono aiutare per lo spazio di un minuto, una manciata di respiri.
E non passa un’ora, che sul petto, di nuovo, grava un peso che sprofonda. Si finisce sotto alla terra che gli altri calpestano.
Di qui, la mia domanda.
Come si fa a dire a qualcuno che capisci, anche troppo, di non compiere gesti azzardati?
Quale significato dovrebbe avere la spinta a continuare verso un avanti che non esiste?
È da tanto che penso a questo discorso e anche se (forse) mi sono già data qualche risposta
non lo so, è una forma di dubbio che non si esaurisce mai.