Ieri sera, mentre ripensavo alla questione video (li farò, ma sul “come” continuerò a cambiare idea anche dopo l’upload, quindi pace)
declinavo a scopo “preparatorio” uno dei miei soliti monologhi allo specchio: trentacinque minuti in bagno da cui regolarmente esco dimenticando di lavarmi i denti.
Stavo disquisendo tra me e il bidet di come siano diverse ora le emozioni – prima un continuo su e giù stile torri gemelle di Mirabilandia – e di come il pugno monco di “Ti amo” pronunciati in vita mia, non valgano più.
Volevo bene ai disagiati a cui li ho detti, ma lo slancio e il trasporto, ora capisco, erano finti. Più che rinnegare è un “prendere atto”.
Perché, step successivo, la mia era solo ansia di fare le cose come andavano fatte: forse in quel modo, avrei ottenuto quello che dai miei familiari è sempre mancato. L’interesse nei miei confronti, l’esistere al di fuori delle loro aspettative e fisime su di me.
A volte mi sento ancora cretina a pormi il problema dopo tutto ‘sto tempo, eppure niente è cambiato: quando li deludo per loro smetto di esistere;
d’altra parte, nemmeno una volta un mio familiare ha mostrato interesse per me quando facevo qualcosa che mi piacesse davvero. E non riesco a dimenticarlo.
Zack tempo fa mi aveva fatto scegliere un ricordo per poi elaborarlo insieme, io ne ho pescato uno abbastanza plateale, perché riassumeva una parte del problema. Non è l’unico però.
Una cazzata: ho giocato a pallavolo qualcosa come 12 anni, da quando ne avevo 6 a più avanti.
Nessuno dei miei familiari ha visto una mia partita.
Nessuno è venuto.
Sono venuti ai due saggi di danza, quando ero piccola, in parte perché sarebbe stato illegale lasciarmi andare sola, in parte perché era quello che – per i canoni familiari – dovevo fare. Poi ho smesso (arrivavo là davanti e andavo via, come per il violino, come per la scuola fin dalle elementari) e il tutto è morto lì.
Avevo libertà limitatissima – in parte ci sta – però mi hanno mollata dalla prima elementare in auto con perfetti sconosciuti per andare a partite sparse in tutta la regione senza mai una volta venire con me.
Quando a loro piaceva l’attività, ero la nipotina bella & intelligente, quando l’attività era noiosa “ah ma non è mica mia figlia“.
Mi viene da piangere a dirlo, mi viene da piangere a scriverlo. Mi vergogno a sentire gli occhi che pizzicano per una cazzata del genere. Però ho appannato comunque gli occhiali.
Insomma: tante volte ho cercato disperatamente di trovare un modo perché agli altri interessasse di me. Tralascio tutto un capitolo infinito su come, le volte in cui ci sono riuscita, regolarmente sono impazzita, suppongo per aver mosso un coperchio di piombo che schiacciava una frustrazione troppo grande, per essere punzecchiata da facezie così.
Dunque, avanti ancora, ostinarsi a cercare attenzione da chi sai non te la vorrà mai dare è un’eterna condizione a cui io sola mi condanno e insieme e l’unico modo che conosco per sentire un legame verso qualcuno.
Improvvisamente, e davvero non avrei voluto, mi è poppato in mente Alck. Che, per la fila di questioni sue, di cui ho già detto non spiegherò i dettagli qui, fatica ad accettare l’esistenza di qualcuno che non sia in funzione di lui stesso.
Mi sono sentita triste.
Perché – salto mille passaggi di ulteriori botte e risposte tra me e lo scaldabagno – lui è così, una parte troppo grande di quello che mi ha coinvolta di lui, pesca da lì.
E una cosa del genere, io non la voglio più. In teoria.
Nelle scorse settimane, l’arrabbiatura (sana) nei suoi confronti l’avevo placata ragionando su come fosse la sua prima volta nel mettere a fuoco e vocalizzare le paturnie che teneva sedate dentro di sé.
Mi fido di lui e so che – in ogni caso – non sarà mai volontario il farmi del male (relativo) o trattarmi di merda (sotterraneo)
però, voluto o meno, lo rifarà.
Adesso – step ancora – ho capito perché Alck non piace al mio Protettore Distaccato: vede solo se stesso.
E – secondo la teoria degli schemi – il Protettore Distaccato è lì al dichiarato scopo di allontanare le fonti di dolore. Ha già il suo bel da fare con tutto quel passato, figuriamoci se deve mettersi a difendermi da qualcuno che è appena arrivato.
Qualcuno che vede solo se stesso e me in funzione di lui, è esattamente il problema attorno a cui ho perso senno ed energie per tutta la vita.
D’altra parte (qui i rimbalzi tra me e il bicchiere degli spazzolini li segno tutti), ci tengo ad Alck e non è che questi mesi siano stati una sequela di drammi, no.
Ma nemmeno sono stati granché. Mi sono sentita molto sola.
E sì, abbiamo finalmente iniziato a parlare e a conoscerci, ma una cosa tanto difficile vale la pena ostinarsi a edificarla?
Da un lato penso di sì: l’ho già scritto qui
ma tra i due estremi del filo conduttore, non so dove mi trovo:
per qualcuno a cui si tiene vale la pena mettersi lì e lavorarci insieme
o è l’ennesimo fondo perduto in cui sputtanare mesi o anni?
Qual è il limite del sano o ragionevole e dove inizia il patologico?
Cosa sia sano e cosa no, non mi toglie il sonno, ma sono domande frequenti anche per altri argomenti. Penso dipenda dall’essere discontinua con la terapia – questione di orari – e passare periodi relativamente lunghi con i lavori a metà: i cavi scoperti dissipano di più.
E le mie parti non sono ancora fuse bene, tipo un impasto pieno di grumi.
A voi capita mai di essere sequestrati da un succedersi di pensieri?
Io non so cosa ascoltare.