Ah, comunque, argomento “Scrittura”

Il capitolo 2 è stato IL male ma il verso lo ha trovato;

il capitolo 3 ci è andato vicino ma ogni dubbio sull’identità dei miei personaggi è stato fugato.

Ci siamo conosciuti meglio, con calma. Infatti c’erano momenti in cui avevo piazzato cose a caso, che stonavano, perché non eravamo abbastanza in confidenza per sapere cos’avremmo fatto in momenti privati, solitari, isolati. Non ci stiamo per forza simpaticissimi, ma ci siamo detti quasi tutto.

Scrivere fantascienza (bene o male, brutta o bella che uscirà) è un’esperienza strana, se la realtà non è il tuo forte. Credo: non ho metri di paragone, ovviamente.

Però mi fa ridere come, alle domande sulla storia, io conosca le risposte anche se non ci avevo ancora mai pensato, mentre per l’interlocutore è sempre un “Ma come fai a farti viaggi così…?”

Non li faccio: io li ospito, e ogni tanto salgo a bordo.

Il secondo capitolo è il male

Questo capitolo mi sta facendo diventare scema.

Devi iniziare a spiegare, ma la storia è complicata, non puoi usare un linguaggio troppo specialistico ma fai fatica a bilanciare perché per te è terminologia normale, devi dire al punto giusto, di lunghezza e sapidità, se no è troppo, se no è poco

deve andare (via spedito alla lettura) e tornare (il discorso), quindi gli eventi vanno messi in fila bene, perché ci si può incagliare per troppi motivi diversi.

Comunque, secondo me, è figo. E credo di essere uscita dalla buca spaccacaviglie e posso fare una breve corsa di ancora mezz’ora in volata. Ma che fatica.

La felicità è un piatto che si scalda da solo

Mentirei se dicessi che non mi manca ogni tanto Alck. Il fatto che ci siamo sentiti spesso in questi giorni, e che regolarmente sia finita con me che gli scrivevo in fila tutti i motivi per cui non ne potevo più, ha certamente mitigato la sensazione. (È lui che se le cerca: mi ha scritto un pippone infinito ripetendomi ANCORA le stesse menate senza senso. Ho fatto lo screen parte per parte con le minchiate sottolineate e commentate).

Mentirei anche se dicessi che non mi sento felice.

Sono felice per la prima volta dopo tanto tempo, letteralmente entusiasta, probabilmente un po’ delirante.

Ho ripreso in mano il mio primo manoscritto, iniziato tre anni fa. Iniziato, per essere precisi, come un kolossal cinematografico che mi si proiettava da solo, inarrestabile, nella testa mentre studiavo fisiologia.

Alck, il quale – per dirla tutta – non ama leggere, aveva commentato le prime pagine che gli avevo fatto leggere con un “Ma fa schifo”.

Stavamo insieme da pochi mesi, non gliel’ho mai perdonata, questa uscita. Mi tornava in mente ciclicamente. Sapevo che aveva torto (non fa schifo, magari piacerà solo a me ma non fa schifo, checcazzo).

Comunque, il suo disprezzo per qualcosa che amavo da morire, me lo aveva fatto gradualmente accantonare, insieme al fatto che il senso di rifiuto costante mi prosciugava qualunque spinta in generale. E poi la psicoterapia mi aveva distratta; distrazione che, insieme alla sensazione di disvalore, mi aveva convinta di non essere più in grado di proseguire.

L’ho riaperto due giorni dopo averlo lasciato. Il sollievo nel vedere che la terapia non aveva intaccato proprio niente (dato che era uscito dal disordine ingestibile del mio cranio, e che la terapia lo aveva un poco riordinato, era qualcosa che non volevo affrontare) è stata una sensazione incredibile.

Comunque non avevo mai smesso di appuntarmi cose che mi venivano in mente, da inserire: dialoghi, nodi d’intreccio, spiegazioni e cose così.

Adesso sto tirando fuori tutto, che è anche uno dei motivi per cui ho voluto venire a stare in questo appartamento: mi serve spazio. E lo spazio lo sto occupando così

In tarda mattinata mi sono seduta con l’idea di andare avanti per un paio d’ore, ho così tanto da fare! Leggere il materiale scritto, tirare fuori gli appunti, colmare i buchi nella trama… che non è difficile: è una cosa che va da sola. Mi faccio una domanda e magicamente so la risposta, senza bisogno di esitare. I pezzi che ancora mancano – sono certa – arriveranno almeno a mano che avrò rifinito l’incastro dei precedenti.

Ho iniziato a scriverlo di getto, più di 200 pagine scritte in piccolissimo (le prime 14, trasformate in cartelle editoriali, sono diventate 25, per dire), quindi editorialmente parlando, saranno circa il doppio, senza contare gli appunti. Ok, mentre scrivo penso che forse sono un po’ troppe, ma sarà bellissimo! Almeno, per me.

Sistemare tutta ‘sta roba è mastodontico, ma non riesco a esprimere come mi sento mentre lo faccio… mi sento come mi sono sentita a leggere i libri che ho amato di più, tutto insieme!

Dicevo, mi sono messa lì con l’idea di usare due ore e ho tirato su la testa che ne erano passate più di quattro. Inclusa quella di pranzo.

Adesso che ho scritto questo post sul cellulare, gettando ogni tanto uno sguardo sognante alle mie pareti, corro a mangiare che poi ho da fare!

Ah, sull’altra parete procede anche il piccolo romanzino iniziato un anno e mezzo fa, stesso discorso che vale per il primo: adesso ho appesa sui muri un sacco di felicità!

Non so scrivere un incipit

Può anche essere che io abbia già postato questa parte, ma se non lo ricordo io – da diretta interessata – dubito sia rimasto a qualcun altro, nel caso.

Con la terapia dell’anno scorso, ho iniziato a scrivere un romanzino che per un po’ ha vagato perduto nell’immanente disorganizzazione delle mie settimane. Ora, cercando di rimanere fedele a una tabella di marcia che trovo sensata, vorrei finirlo in tempi non biblici.
Il legame con la terapia è abbastanza impalpabile: quando si è chiarito che la mia personalità fa un po’ il cazzo che le pare, oltretutto al plurale, Zack mi ha parlato delle varie strategie con cui le porzioni separate possono venirsi incontro. Nel mio caso, la più congeniale è la scrittura e così è nata una storiella con cinque personaggi principali che incarnano ognuno un tratto autonomo della mia personalità. Lo spunto poi ha preso la sua strada: non sono cinque me che parlano, sono solo cinque persone attinenti alle mie cinque porzioni, modellate su visi noti o inventati con cui ho a che fare da un po’.

Solo che, come spesso accade quando si scrive, temo di aver perso di obiettività. Non è efficiente continuare a riscrivere la stessa parte e sto procedendo;

vorrei – se qualcuno ne avesse voglia – un feedback sulla prima facciata o poco più.
Here you are:

 

1

L’ingresso della donna elegante e ricciuta in cappotto leggero rischiava di provocare una disastrosa reazione a catena al bancone del bar. Lo squillante “Buongiorno!” avvisava i clienti più esperti di scalare di un passo: se fuori pioveva arrivava grondante; nei giorni di commissioni, caricata di pacchi ingombranti. Era buona cautela farsi più in là.
Carissima, il solito?” sapeva il barista; tipo paziente che rideva rivolto al beccuccio sbuffante.
Gli era bastato il lamento dell’avventore di turno: un colpo di coda della borsa gigante aveva centrato l’ennesimo fianco.
Oh, mi perdoni… Sì grazie Dido, doppio macchiato!”
Il barista eseguiva senza più indagare il tipo di danno: da copione, il cliente ferito si sarebbe voltato con un sopracciglio per aria e poi col disappunto smontato in un soffio dal sorriso di lei.
Arrivava regolarmente quattro mattine su sette, trafelata, per gustarsi in pace una buona mezz’ora a sorbire un ordine o due – sempre lo stesso – sfogliando il giornale.
Il caso voleva che a qualche minuto dal suo allegro saluto il bar si vuotasse, scandendo gli orari di una clientela per lo più abituale;
così lei e il barista – Dido per tutti – scambiavano qualche parola su loro e sul mondo, con in sottofondo il risonante stormire di tazze che lui caricava e spediva diritte a lavare.
Dove andremo a finire di questo passo?” sospirava, raggiunto il fondo di tazzine e giornale.
Si preparano tempi bui” rispondeva lui, e notandola incupita cambiava argomento: “Figlio e marito? Resistono?”
Lei rideva e lo informava sugli (a sua detta) inspiegabili sinistri sofferti dai cari.
Una volta il marito aveva infilato quatto quatto la testa nel baule dell’auto, proprio mentre lei si affrettava a serrarlo per scappare a lavoro. Gli ci erano voluti giorni, per superare la contusione.
Poverino, dopo ha farfugliato qualcosa… diceva di essere lì da cinque minuti a cercare un qualche attrezzo, ma io proprio non lo avevo visto…”
Un’altra volta, il figlio non si era accorto che lei – ovviamente – puliva l’armadio delle scarpe sito al soppalco, lanciando dabbasso le paia malconce. “Per fortuna, da quando è entrato nella squadra di rugby, le prende al volo!” cinguettava contenta.
Dido aveva dapprima smesso di celare, poi di avvertire qualunque sorpresa: era evidente che i maschi di casa fossero ben allenati a superare la naturale selezione, soavemente incarnata da lei. Se fosse stata un’altra, si sarebbe chiesto come i due sopportassero tanta follia; invece, avendola di fronte, annuiva comprensivo.
È ora che vada… Ecco, dovrebbero essere giusti”
Benissimo cara” Dido non contava il malloppo di spicci: ormai la sua mano pesava gli importi. “Ti aspetto stasera con le Sorelle?”
Ma che giorno è oggi…?! Ah! Sì! Certo! Scappo!”
Il barista si era portato la mano alla fronte: un signore, entrando, l’aveva salvata dallo scontro col vetro. O forse aveva salvato il vetro da lei.
Tutto tranquillo, al Bar Sacramento.