Ma che titolo vuoi che metta

Ho sempre pensato che bisognasse desiderare una vita piena di poesia. Credo sia un effetto collaterale dell’essere stata cresciuta dai libri; spesso libri stupidi. E da preti, però preti sognatori. Quindi stupidi due volte. Dunque non mi sento poi così turbata, di aver pensato un sacco d’idiozie.

Quando mi trovo a casa di Alck, non riesco a pensare. Poi torno in questo accarpamento (perché è un appartamento in cui sto molto accampata) e il cervello mi vomita fuori tutto insieme. Infatti mi viene voglia di cenare prestissimo, dormire prestissimo e tutto prestissimo. Perché non ho niente da aspettare e la mente mi stanca.

A casa di Alck aspetto che lui mi legga nel pensiero, e non succede mai. Probabilmente perché là non penso, e ho solo un cupo ronzio che rimbomba nel cranio. E poi lui non legge. Insomma: le mie pretese sono sempre il più irrealistiche possibile. Come con la poesia: qualcuno ci ha anche provato. Tra le figure poco interessanti che appiccicavo alle persone nel passato, vagamente ricordo alcuni tentativi di poesia. Ne apprezzai solo una, per il pensiero (la “poesia” era ridicola e, sul fondo del foglio, era attribuita a Nazim Hikmet, o come si scrive; “Nel caso non ti fosse piaciuta”. Neanche quelle del vero Hikmet-o-come-si-scrive mi sono piaciute).

Comunque, le poesie degli altri – letterali o metaforiche – non mi piacevano mai: mancava un po’ di ritmo qui, un pizzico di senso là, e facevo l’analisi del testo a ogni gesto che non s’appaiasse ai miei pensieri. I quali – come detto – erano stupidi, quindi potrei stare facendo un complimento a un pugno di persone.

Per un po’ non andrò da Alck, perché ho voglia dei miei pensieri e delle mie poesie. Dato che quelle degli altri non mi piacciono mai, ho concluso che le mie siano migliori, per me. Il solo giudizio che conto.

Ho scoperto che mi soddisfa, come la realtà non rifletta la mia fantasia: i miei incubi sono faticosi e inquietanti, ma mai lontanamente quanto i sogni che non fanno paura.

E poi, quando sono sola, leggo di più. Leggo più libri, più blog, più etichette dei prodotti che decido di comprare. Possono essere molto istruttive.

Alck ancora non lo sa: cade sempre dalle nuvole, prima che gli abbia ripetuto qualcosa per la quarta volta. Sembra sempre che alla terza abbia afferrato perché – dal nulla, mentre si sta facendo tutt’altro – me la ripete. È sempre la penultima volta prima che la ricordi. Ultimamente fatichiamo parecchio. Fatichiamo parecchio perché lui è pieno di pensieri (noiosissimi e ansiogeni) e io d’interferenze.

Così succede che mi confondo e mi agito. Mi viene la claustrofobia e mi siedo sul cesso pensando che sia finita (non sono drammatiche fughe nella stanza da bagno: devo solo urinare).

Un’altra cosa che pensavo, è che i rapporti non dovevano avere momenti così: ci si doveva conoscere, poi vorticare in una tempesta di sentimenti, sbattendo il cranio a destra e manca; dopodiché serviva arrivare a un grande punto di rottura, con tragici allontanamenti e sofferti silenzi, per infine ritrovarsi improvvisamente avvinghiati, rigonfi di giubilo e ardore. Vatti a fidare di quella stronza di Jane Austen (non è colpa mia se li chiamano “romanzi di formazione”). Un po’ mi viene da ridere, per la scioccheria di questa scarna scaletta, ma era proprio così che la facevo andare.

Beh, insomma: quando mi ronza la testa a casa di Alck, un po’ questa memoria motoria di sega teatrale mi torna su, tipo i rutti alla cipolla. E poi, quando parliamo – a volte il giorno dopo aver parlato, perché siamo due logorroici – e ci guardiamo, è di nuovo come se Jane Austen non fosse mai esistita.

Adesso mi fumo una sigaretta a letto e poi mi metto a dormire (sto cercando da decenni di approntare una tecnica efficace per addormentarmi leggendo, in modo che i personaggi dei libri si possano infilare nei sogni con me; questo è ambientato in un cimitero: anche i miei incubi dovrebbero essere d’accordo).

Io, comunque, mi piaccio quando penso.

Un noir in famiglia – 3

Altri familiari – parimenti disturbanti – sono meno rilevanti ai fini di questa vicenda; li introduco brevemente per questioni di contesto e ragioni: forse, se Zia Zara fosse stato un caso isolato, le conseguenze della sua condotta avrebbero finito per diluirsi, attutite da un contorno più equilibrato. Figuriamoci.

Mentre scrivo, mi chiedo cosa accadde alla bisnonna in questione (ne ho conosciuti cinque su otto di bisnonni, sono morti in successione dal compimento del mio nono anno in poi: li ricordo di persona) per diventare un’adulta tanto combattiva; no, non penso che i due conflitti mondiali c’entrino troppo: non combatteva qualcuno al di fuori ma ogni pulsione dentro di sé, soprattutto quando – livorosamente – la riconosceva nelle figlie. Se a Nonna T. chiedo qualcosa, generalmente si trincera dietro sbrigatività difensiva e mi liquida con un “all’epoca si faceva così”. Ci crederei, non avessi conosciuto troppi antenati, per farlo.

Negli anni delle sicurezze e della stabilità economica, i segni del prossimo disfacimento erano occultati da sfoglie dorate presto trasformate in pasta fresca, succulenti arrosti fumanti, occasionali e sfavillanti serate in quella piccola società di provincia. L’abbondante benessere soffocava violentemente il senso di malessere, occupando ogni spazio possibile, spingendolo in basso e facendo sentire terribilmente in colpa e sbagliato chiunque si permettesse di avvertirlo.

Quale giustificazione poteva avere un dolore che non fosse legato ai morsi della fame, al non aver di che coprirsi? Non c’era dignità riconosciuta nel soffrire mancanze immateriali e innecessarie, in una famiglia che ricordava più di una guerra, in cui sembrava toccarcisi solo per procreare.

I miei ricordi più chiari iniziano sul finire di quegli anni: un lento declino sfociato nella paura e nella solitudine di tutti i coinvolti. Da figlia illegittima, io risplendo tra le cause e le vittime. È stata la fedeltà a vincolanti dettami, spinta dalla paura di restare soli, che ha tenuto uniti tanti di noi, alimentando un rumoroso odio reciproco; legami freddi e soffocanti, malsopportati a ogni costo perché l’idea di reciderli non poteva esistere.

La Zia Zara che ricordo da piccola era un rumoroso uccellino appassito, ancora straripante di frivolezza e incoscienza. L’ho sempre capita, perché rappresentava una versione apparentemente meglio riuscita di mia madre; una volta le chiamavano “snaturate”, oggi le chiamano borderline: persone capaci di rincorrere unicamente il proprio godimento, prive della capacità di considerare qualunque aspetto dell’esistenza che non rientri nel palcoscenico immaginario in cui mettono in scena la propria quotidianità. Un palcoscenico che mescola desideri e realtà, indiscriminatamente. Zia Zara e mia madre andavano d’accordo, erano come bambine che confabulavano ridacchiando, raccontando e ascoltando l’un l’altra la propria verità, diversa da quella di chiunque altro.

Il figlio maggiore di Zara, Enea, che neanche saprei riconoscere, prese con una rincorsa di profondo odio le distanze dai genitori, in un momento imprecisato del passato e di lì in poi venne nominato in famiglia come un avventuriero destinato alla sciagura. Abitava a pochi km ma era come se avesse abbandonato il pianeta. Da bambina mi rimase impressa parte di una descrizione che riportò mia nonna, dopo averlo incrociato casualmente per strada: gli mancavano dei denti. A quei tempi, credevo ancora fosse tra le cose più gravi che potessero accadere a una persona, peggio dell’infelicità. I miei incubi si somigliavano tutti: uscivo di casa e scoprivo improvvisamente di non portare indumenti dalla cinta in giù, mi cadevano i denti e – in ultimo – mi aggiravo nella vecchia casa, completamente buia e inspiegabilmente estranea e mia madre compariva all’improvviso, sovreccitata e grottesca, spaventosa. Negli incubi più angoscianti, mia madre si nascondeva dietro tutte le porte.

L’altro figlio, Gherardo, aveva completamente abbracciato lo stile di vita genitoriale: un’attività commerciale di cui e con cui riempirsi la bocca (si parla di preziosi, si vocifera di illeciti), l’appartamento lussuoso, abbigliamento allineato all’immaginaria caratura del cognome. Suppongo rappresentasse il suo sforzo finale per ricevere considerazione da madre e padre, quel tipo di vita; considerazione che non arrivava, se non in occasioni particolari e isolate. Forse era solo perché non ne conosceva altre, non so.

Gherardo e la moglie Carla, donna talmente assoggettata e servile che nemmeno quando la sua esistenza è diventata un calvario ha smesso di adorare e servire il marito, hanno una figlia: Sabina.

Avrò avuto circa otto anni – Sabina tre o quattro più di me – nel breve periodo in cui trascorsi tanti pomeriggi a casa loro. Giocavamo alle bambole e avevamo l’imbarazzo della scelta, in quelle due stanze piene di giocattoli; io avevo anche l’imbarazzo dell’inadeguatezza. Non capivo se lei passava volentieri del tempo con me, abissalmente più piccola (considerando la fascia d’età), né saprei dire se la nostra frequentazione fu interrotta perché lei crebbe troppo o per altre ragioni. Non importa saperlo, dato che mi sfugge persino come fosse iniziata. Ricordo distintamente alcuni spaccati: un paio di giochi per me impensabili da chiedere ai familiari o a Babbo Natale, qualche frase ripetuta spesso, animando le Barbie che sceglieva di interpretare, e il non averla mai vista ridere.

Per almeno un lustro a venire, avrei ricevuto regolarmente sacchi per la spazzatura, straripanti di suoi abiti seminuovi, a malapena indossati. Ammetto che, all’epoca, mi pesò di più l’interruzione del flusso di indumenti che la perdita dei contatti con quella lontana cugina.

Dalla quinta elementare a oggi avrò incrociato Sabina forse due volte e ogni tanto l’ho sentita nominare. So che – per la volubile gioia di sua nonna Zara – debuttò in società, ma anche quell’ennesimo tributo non valse a Gherardo l’approvazione materna per più di qualche giorno. Con il senno di poi, cerco d’immaginare Sabina e il panorama che ne traggo è così diverso dall’immagine distrattamente recepita in passato, basata sui racconti dei miei. All’epoca avevo quattordici anni e tutt’altro per la testa, ma ora mi sembra di vederla: vestita di bianco – lei, così alta – spessa nella figura ed eternamente mesta nello sguardo, come la madre Carla; mi sembra di vederla, terribilmente a disagio, in una situazione estranea a lei e ancora di più agli imbarazzanti genitori, al rumoroso e infantile padre e alla sommessa e insipida madre.

Mia nonna ha cercato di contattarla al recente ricovero del padre, dato che anche Carla era in ospedale e nemmeno nello stesso. Ha risposto una megera urlante che ha preso ha insultare Nonna T., accusandola di volersi impicciare degli affari loro, perché aveva chiesto se poteva aggiornare la bisnipote sullo stato di Gherardo. Ma Sabina – stando all’abbaiare di quella cagna della suocera – dice di non avere altra famiglia eccetto quella del marito: un artigiano della notte con la faccia da gorilla a cui ha dato quattro figli, in una casa dove ha rinunciato a rispondere al telefono, dalla quale pare raramente esca.

Come sua madre si votò al culto di un marito irretito dal proprio vuoto, Sabina l’ha disconosciuta per intraprendere lo stesso, inutile martirio. Non credo la rivedrò mai.

Il gioco nei sogni

Capita, in sogno, d’incontrare persone
che sono perdute fuor d’immaginazione
sembrano vere se le stringi e le mordi
i sogni sono il trucco per barare dei ricordi.

Riesisti e mi chiedi “Che gioco facciamo?”
“A me non importa, intanto giochiamo”
e tu con magica mossa ad arte
estrai dal nulla un mazzo di carte.

Cala la carta e c’è un prato innevato
lo riconosco: io ci ho camminato
tu mi tenevi gigante per mano
io ti sfuggivo senza andare lontano.
Cadono fiocchi di acqua ghiacciata
“Dammi un bicchiere con l’aranciata
vorrei una granita come d’estate”
mi scaldi ridendo le dita gelate;
svanisce la scena, la mano è finita
so che niente è vero perché mi è riuscita.

Cala la carta e profuma di pane
la nonna ci mette prosciutto o salame
“Ci vuoi provare? È la tua giocata”
“Sì ma non pane: voglio far la crostata”.
Aggiungo impegno e qualche preghiera
perché non incrini alcuna dentiera
la teglia scompare, il forno si è spento
il dolce è pronto e non è di cemento.
So che è per finta ma sembra la stessa
però qui nel sogno la dose l’ho messa.

Cala la carta ed è un giorno festoso
domenica, andrebbe dedicata al riposo
invece si corre, con gran strepitare
“Muoviamoci, su!, sta per iniziare!”
Le donne davanti e io te dietro in coda
sul pulpito un prete che parla e che loda.
Il gioco finisce e la chiesa è lontano
tana di un gobbo che fa il sagrestano
per finta la messa è durata un momento
e non s’è sprecato tutto quel tempo.

Cala la carta: disinfettante arancione
del colore che hanno le divise in prigione
nei programmi TV che mi sono vietati
ma oggi è concesso perché siamo inventati.
Ritorni di corsa dall’ospedale,
stavolta ne esci e non è reale.
Ritorni alla vita senza alcun imprevisto
verso un futuro che non hai mai visto.
Tutto sommato son felice lo stesso:
quello che conta per finta è l’adesso.

Cala la carta, il gioco è finito
mi guardi più stanco, quasi assopito
chiedo se ti sei divertito anche tu
ma chiuso il mazzo non ci sei più.
Torno in un lampo la bimba impacciata
in piedi in cucina quando mi hai salutata
“A presto” hai detto dopo l’ultimo bacio
la sola bugia che mi hai raccontato.

Passano gli anni e ti penso anche adesso
torna a trovarmi per favore più spesso.
I sogni sono il modo di barare dei ricordi
se non ci pensi troppo

nemmeno te ne accorgi.

Para dura

Ho la testa annodata di roba che non riesco a tirare fuori: è troppo piena e il contenuto non passa e se cerco di tirare un filo per dipanare la massa, ottengo solo che si allacci più stretta. massa

Ho una cosa da concludere, non voglio rischiare di dover non sapere mai cosa sarebbe potuta diventare.
Il resto, l’ho lasciato stare. Non importa che penso ancora quanto vorrei passare con lui un’altra giornata, è una nostalgia forzata. C’era poco da fare, non ci andava di faticare.

Comunque sono felice e non penso mi fosse ancora successo. Esserlo, non è una magia vuota colorata in modo gioioso: è un pendio scivoloso e non l’avrei mai ammesso fino a quando ho capito che l’aver avuto torto in quasi ogni convinzione è una cosa con cui si fa pace quando il cuore è tranquillo e la mente sa e tace.

Stanotte ho fatto un brutto sogno, di quelli che ti svegli e hai il cuore spezzato e ci ho messo un paio d’ore a sistemarlo: non si era proprio rotto, solo ammaccato
sbattendo contro al fatto che sei un incubo di cui ho bisogno, a metà strada tra il niente e il passato

 

Incubi e pagnotte

Ieri sera mi stavo addormentando arrabbiata con P.

Per nessun motivo in particolare, solo tutti quelli vecchi messi insieme perché quando i rapporti sfumano anche il nervoso c’ha sto tono pastellato che alterna da più a meno intenso a seconda delle fritture.

Poi mi ero appena vista Still Alice.

PARA.

Mi son detta: “No! Non assopirti con questi rimuginii: fuma una cicca, svegliati a quest’ora indegna rendendo inutilizzabile la mattinata di domani e almeno non sognerai robaccia”.

Ma il mio ego mica è scemo e sa impastare le mie intolleranze alimentari, interpersonali e paranoidali tutte insieme con inusitata maestria mettendo su scenette ansiogene di ridicoli contrappassi.

Ho sognato che inavvertitamente

mangiavo
un
kg

di 
pane 

 Ho un subconscio semantico e gran facciaddimmerda.