La chimica di base, Satana, il suicidio – 2

Questo è il messaggio con cui si è aperto, pochi giorni fa, il capitolo corrente. Erano mesi che non avevo sue notizie, e onestamente avevo paura di farmi sentire; sia per il timore di rivedere in lui qualcosa che non va anche in me – la splendida autoreferenzialità dell’ansia – sia per l’insopportabile sensazione di repulsione all’idea di una sua ricaduta: sapevo cosa sarebbe successo, fin dall’inizio. Sapevo che le ricadute ci sarebbero state e sapevo che le avrebbe dovuto affrontare solo, sapevo che avrebbe smesso di credere al poter stare meglio. Francamente, una tale portata di dolore è troppo per me. La sento come se fosse mia, mi immobilizza come se stesse succedendo a me ed è sempre stato così anche per questioni meno gravi: non posso essere toccata da attacchi frontali in alcun modo; non esiste sgarbo che mi si possa fare capace di atterrarmi; ma la disillusione degli altri davanti a una terribile, nuova consapevolezza, è un’ondata che mi annega.

Guardare qualcuno che ha appena capito come la sua vita non potrà mai essere è come osservare una persona che fissa il cadavere di quanto ha più caro, dell’unica cosa che la faceva sperare. Non lo so… è troppo.

Dopo un breve scambio di ripasso su acidi e basi forti, che mi terrorizzava a ogni informazione – volutamente vaga – che fornivo, mi ha raccontato di stare male di nuovo. Stava male, era preso male e aveva bisogno di parlare. Anche di incontrarci, assicurandomi che avrebbe mantenuto la distanza di sicurezza e tutti i crismi, riguardo a questa grottesca pandemia. Ma io non sono nello stesso comune: ero appena arrivata a casa di Alck, a una trentina di km, quando il blocco è cominciato. Qui sono restata.

“Dai, ti chiamo o ti videochiamo”

“Preferisco non lasciare tracce sul telefono”

Inizialmente, anni addietro, la sua psicosi si manifestò con manie di persecuzione (i suoi deliri sui social riguardavano le persone che, secondo lui, erano responsabili di tramare alle sue spalle). Comprensibile che una ricaduta pigiasse gli stessi tasti.

Alla fine ci siamo sentiti, siamo stati al telefono quasi un’ora prima che lui si stancasse. Così, per rompere il ghiaccio dopo tanto silenzio, mi ha raccontato del suo recente tentato suicidio.

Ci mancava anche lui

“Ciao! Cavolo… ho dimenticato di lasciarti il numero del mio Fisio Magico! Adesso mi fermo e te lo scrivo”.

Un quarto d’ora fa ho incrociato il tipo che lavora vicino a casa mia, quello che avevo incrociato al servizio di Igiene Mentale del mio paese.

Sembra uno zombie e io sono stanca, per cose mie, per cose di Ine, in più mi ha chiamata C., altra ex coinquilina (successiva a Ine) che ha un’indole ciarliera e molta intraprendenza, ma anche una famiglia che s’incrinò anni fa e che ora si sgretola sulla sua testa. Calcinacci impossibili da schivare.

Io sono stanca perché non sono brava a essere triste.

Zoppica ancora, e io – distrattamente – non ho mantenuto la parola: passare a prendere un caffè e passargli il contatto.

Checcazzo: conosco solo baristi, prendo sedici caffè al giorno…

Comunque, mi risponde sconsolato e rigido, come al solito, come il suo passo:

“No ma guarda, non importa: mi ero detto che sarebbe stato inutile arrivare all’età di Cristo…”

“Beh direi che l’hai superata da un po’”

“Esatto, ma ai 50 non mi importa di arrivare”

“Lo sai vero, che non sarà un ginocchio a ucciderti?”

“Sì” bofonchia con un sorrisetto amaro, lo sguardo puntato sui ciottoli della via e le mani strette dietro la schiena. “Ma voglio collezionare tutti gli acciacchi possibili”

“Che idea di merda”

“Poi penso farò come mio padre…”

Suo padre, anni fa, si sedette nella propria auto parcheggiata in garage, con il tubo di scappamento allungato da un tubo fin dentro all’abitacolo. Morì così: soffocando addormentato.

Capisco l’appeal, per un insonne.

“Eh alé… beh, aspetta: non che fatichi a capire la pulsione”

il pensiero di morte è una cosa con cui sono abituata a convivere. Niente di esagerato: alcuni giorni, continuare a vivere mi sembra una scelta del cazzo. Non è tristezza, non è sconforto: è solo vuoto il senso di quel giorno, di quell’ora o di quel minuto. Talmente vuoto, che attorno e dentro resta il niente.

Il trucco sta tutto nel rimandare. Per una procastinatrice come me è facile: io sopravvivo perché sono troppo disorganizzata, per uccidermi quando serve. Lui no: lui è efficiente.

Tra l’altro, lui non si stupisce: lo dice con me perché ci siamo incontrati nel posto dei cervelli rotti, perché sa che capisco.

“Ok, capisco, ma poi?”

“Poi niente: buio.”

“Macché buio. Poi niente e niente, una cosa che non puoi pensare: non si pensa il non essere. Noi siamo. Fatti di merda, ma siamo”

“Tu non sei credente?”

“Io? Ma figurati. Comunque, per morire c’è tempo, perché farlo subito?”

“È vero, ma non c’è più niente che mi piaccia: giocavo a tennis e non gioco più. Guardavo le partite di calcio e non le guardo più, viaggiavo e non faccio più neanche quello. Le mie figlie hanno 18, 15 e 13 anni e non mi cagano più…”

“Quella è l’età, quello passa”

“Me l’hanno detto”

Io non sarei contenta, se si ammazzasse.

“Senti, un anno fa circa, una ragazza si è buttata sotto a un treno. Quando l’ho saputo, ho pensato a tuo padre, che una volta si fermava a parlare con me, poi non l’ha fatto più. Nessuno dei due sorrideva da anni”

Arriviamo vicino a casa mia, dove lavora lui.

“Anche a me lo dicono, che non sorrido più. Anche il tipo dell’Igiene Mentale mi ha detto che sono svuotato…”

“Chissà come mai eh… senti: aspetta ad ammazzarti e và dal mio fisio. Anche se non sembra, avere sempre male a qualcosa, fa male alla mente. Fidati: ho fatto almeno 12 anni di dolori cronici. Ti rendono peggiore, rendono la tua vita peggiore”

Mi guarda di sottecchi. Fino adesso, non mi ha guardata granché.

“Dici…?”

“Sì, ma perché lo so! Dai: anche io voglio ammazzarmi ogni tanto, che poi non è neanche quello. Ogni tanto non ho più voglia di esistere, ma tanto moriremo tutti. A ‘sto punto, prova qualcos’altro, prima di chiudere i giochi”

“Mh…”

Abbiamo parlato di cosa potrebbe fare in concreto e non è che le opzioni – pur scarse – manchino, è che – come per tutto – gli sembra non valga la pena.

“Vabè, cosa farai o no, lo deciderai tu. Ma dico, ci vai a toglierti il male alla gamba?”

Dice di sì ed è una bugia.

Entro, prendo carta e matita, gli lascio il numero.

Lui sta già vuotando tavolini pieni di tazze sporche. Prima di andarmene, gli ricordo di chiamare.

“Mi raccomando!”

“Sì certo. Perderò il numero, mi sa” scherza e no.

“Non m’interessa: mercoledì vengo a controllare”

“…”

“Mi raccomando!”

Lo lascio che ridacchia con la spugna in mano e la schiena curva.

Meglio di niente.

Caterina

Fisso la schermata azzurro pallido, senza sapere bene cosa fare. Con un po’ di aspettativa. Non che possa darmi altre informazioni: le ho cercate, è da ieri che scandaglio le notizie, ogni ora. Dicono tutte la stessa cosa.
Guardo lo schermo come se potesse chiarirmi che pensare e non succede.

Ti ricordo da vent’anni.
Quando ero piccola, mi chiedevo come sarebbe stato, un giorno, dire “da vent’anni”.
Ora lo so, è grande, spazioso. Tanto che dentro ci stanno molte persone, tutte capaci ad un certo modo di far parte di me.

Mi ricordo di te, vent’anni fa, nell’atrio della scuola. Eri così alta, più alta di tutte. Anche di me, che quanto a cm di troppo non scherzavo. A undici anni, i cm di troppo sono in lunghezza, mica in larghezza.
Però, tu sembravi altissima e timidissima e allo stesso tempo capacissima di cavartela così. Un pesce fuor d’acqua, solo perché affiorava la testa.

Ti invidiavo le scarpe, il saper disegnare e una malinconica capacità di rassegnarti al dovere. Soprattutto le scarpe.
Sei sempre stata così gentile. E triste. Perché diciamocelo: saranno tre, le foto dove ti ho vista felice. Guardavo i tuoi album ogni tanto, so di che parlo: raramente sorridi. Spesso ci provi e fingere – davvero – non ti viene granché.

Ho immagini definite, di te. Per mano con quel vecchio moroso sotto ai portici, fuori dall’oratorio, in piazza una sera d’estate. Un campeggio. Non importa che le elenchi tutte, perché lo schermo azzurrino alla fine serve, e mi fa mettere a fuoco quello che ci stavo cercando dentro. Sono immagini dove tu ridi felice e io ti invidio, poi ne ho viste sempre meno così. Ecco, perché, mai sostituite, le ho ancora lì.

Le tue amiche dicono che per aver fatto una cosa del genere dovevi aver ricevuto una notizia terribile, di qualche malattia incurabile o che so io. Chissà, se è stato per quello o se eri solo stufa. Hai lasciato una lettera ai tuoi, pare. Hai fatto bene, forse per loro sarà importante saperlo.

Mi spiace che tu sia arrivata a stare male fino a quel punto.
Vorrei sapere se c’era qualcosa di possibile da provare, un aiuto che ti avrebbe potuta salvare. Dando tutto questo come già considerato, in fondo io sono d’accordo con te.

Se ti sei alzata un giorno dopo l’altro sollevando di forza un peso nel petto, aspettando solo che ogni giornata finisse, e non c’era più niente a farti felice;
se hai scritto una lettera, guidato, aspettato un treno
capisco.

Mi torna in mente una sciocchezza di spettacolino tra noi, diciassette anni fa. Recitavamo uno le vesti dell’altro e qualcuno mimando, scimmiottava te. Ridevamo tutti, ridevi anche tu. Quel ciuffo di istanti, per me è dove resti.