Come chi mi legge da tanto sa (e sono commossa dalla loro presenza, davvero), ho speso tante di quelle ore a scrivere di varie seghe mentali riguardo a varie persone
che se avessi impiegato altrimenti le mie energie, a capo di Tesla ci sarei io.
Elon, tu sarai un genio ipercinetico, ma nessuno ha mai raggiunto le mie vette di processazione dati. Su dati inutili, almeno.
Quando stavo male, il grado di sclero riguardo ai rapporti interpersonali era clamoroso. Nella mia testa. Perché il fragore con cui mi rimbalzavano in mente era impossibile da superare.
L’avevo capito anche prima della terapia, che si trattava dell’estenuante ricerca scientifica per testare l’efficacia della narrativa sempre in corso nella mia testa. Madonna, che modo complicato per dirlo… il punto è che al centro del mio mondo c’era solo il disagio, fisico e mentale, così chiunque comparisse all’orizzonte diventava l’interprete di un ruolo già scritto, che non dipendeva affatto da lui, nella costante replica di qualcosa che avrei infinitamente voluto trattenere.
Vabbè.
Mi chiedo come vivano gli altri, specie se abbastanza fusi da non riuscire a vivere nel range della normalità (che per me corrisponde al non lasciarsi sopraffare la vita quotidiana dai pensieri), i sentimenti.
Non solo per i possibili o esistenti partner. Negli affetti in generale.
Perché quando si racconta un’esperienza riferita a uno specifico quadro, nel tentativo di avviare una conversazione si rischia di considerare come normale nell’anormalità, solo la propria esperienza
tracciando nuove esclusioni.