Ci è voluto del tempo, e forse nemmeno serviva.
Non ho la minima idea di cosa ci sia alle spalle di questo post: l’indietro è una direzione per cui ho perso trasporto, e so che è un bene, ma nella mia mente bene e male non sono concetti funzionali, sono solo la differenza che passa tra il respiro leggero e l’addormentarsi facilmente e i lividi che lascia una violenta risacca.
Quello che mi è rimasto invece è l’appassionarmi all’amore fine a se stesso, che se non si realizza è più bello, che senza tocco rimane pulito e ha un suono buono e un profumo musicale, un respiro lento e annoiato come può essere quello del mare, solo se è calmo e fa freddo abbastanza.
Mi è sempre piaciuta la sensazione dell’aria fredda nelle sere di mezzo autunno e inizio primavera, che si somiglia tanto e mi ha sempre messo addosso inquietudine, urgenza, nostalgia. Spesso fini a se stesse.
Sono stata molto sola nell’ultimo anno, perché tra una diagnosi e l’altra, una terapia e una ricaduta – verso un fondo sempre meno lontano – ho sperimentato un senso di pace che non sapevo esistesse. Mai conosciuto prima. La novità più grande della mia vita. Mi ci sono persa in questa pace, la quiete di un grande museo appena aperto di cui sei l’unico ospite della giornata. Avevo tutto da guardare, tutto da avvertire, da tastare senza scatti né stizza, paura o dolore. Ho avuto molto da fare a piangere, quanto non avevo pianto quando avrei dovuto – rimango famosa per essere capace di lasciare qualunque cosa a metà – e a stupirmi.
Conoscere per la prima volta la pace, che pensavo di aver intravvisto in passato, finché ho capito di aver travisato come mi era stata descritta, mi ha tanto entusiasmata da far impallidire ogni interesse per qualunque altra cosa (drastica, come sempre, come un burrone).
Alck, il tizio con cui ho passato qualche anno tempo fa, è uscito di scena da un pezzo. Per la precisione, sono uscita di scena io una mattina, dopo l’ennesima serata sul suo divano con un macigno sul petto. Mi affascina sempre la mia incapacità di lasciar prevalere la realtà quando mi si promette l’opposto. Per me è difficile non credere alle persone a cui tengo; altro motivo per cui detesto quel verbo: “Credere”. Come una boccalona, come una triglia di un metro e ottanta che abbocca a qualunque sciocchezza.
Comunque, il mio corpo ha smesso di credere prima del mio ostinato cervello, e una domenica dopo una notte insonne ho caricato il furgoncino della cooperativa per cui allora lavoravo di (credevo) ogni mia cosa fuori posto in quell’appartamento nascosto (lì dentro il clima era talmente opprimente da sentirmi in clandestinità) e me ne sono andata. Alck non si era comportato bene la sera prima e il mio cervello, intontito dalla mancanza di sonno, non è riuscito a razionalizzare abbastanza scuse per fermarmi braccia e gambe. Poi ci sono state tutte le cose di quando ci si lascia trascinando un po’ i piedi, ma insomma, gli voglio bene, non è successo niente di tragico, solo di triste, e non ho altro da dire su di lui.
Finito il lasciarsi, consumati gli strascichi mentali, depressivi, piagnucolosi, il senso di pace ha prevalso (non mentirò: ci è voluto un bel po’, ma è rimasto un pilastro di novità).
Ignoravo che ci si potesse sentire in pace e basta, ma anche in pace e felici, in pace e isolati, in pace e nostalgici, in pace e arrabbiati. Le mie emozioni erano sempre state sole, totali, incontrastate e ingestibili; erano burrasca e risacca e vento a raffiche improvvise che sbattevano contro scogli, moli, muri. Ogni tanto lo sono ancora, ma esauriscono presto la loro intensità, sedotte e richiamate da un centro di quiete che le assorbe. Che strano. Chissà se mi ci abituerò mai, dopo trentasei anni di tempesta.
Come detto nel titolo, per scrivere serve una qualche forma d’amore.
Nel periodo in cui io e la pace facevamo conoscenza, non c’è stato spazio per amore, infatuazione, trasporto. Mi guardavo attorno senza vedere altro che quanto conoscevo già, con occhi ed emozioni completamente diverse. Lo sapevo da tempo che per me l’amore era più che altro uno strumento – ero convinta – necessario a costruire quel centro di quiete di cui sentivo parlare dalle persone più sane di mente di me, in diverse forme, come si sente parlare delle entità leggendarie per cui ognuno ha una diversa parabola o allegoria. Sapevo anche quanto non fosse vero, ma non potevo scollare quella convinzione dalle mie scelte. La terapia e tutto il resto l’hanno fatta cadere da sola, una crosta matura della cui mancanza ti accorgi chissà quanto dopo averla perduta.
Non bisogna pensare che io qui abbia descritto un periodo lineare: ho avuto ricadute, più di quante avrei voluto; ho avuto illusioni e delusioni, tutto quello che non si vuole, ma sono passate più in fretta, con meno tracce, senza lasciare alcuna cicatrice.
Anche lui all’inizio l’ho scambiato per una ricaduta, e forse lo è, chissà. Di certo, il mio cervello gliene ha data la forma in un paio d’occasioni e io mi sono comportata obbediente di conseguenza. Però è passata e lui è rimasto.
Una volta, scrivere mi serviva per vomitare su sfondo bianco la forza delle tempeste, ora mi pare stia servendo a parlarmi di me, di lui, di quello che mi ha insegnato – perché a rapirmi più di ogni altra cosa, continua a essere la quantità dei mondi che qualcuno è in grado di farmi vedere. I suoi sono grandi e colorati, pieni di cose che ignoro, che mi affascinano, che nemmeno so esistere e in alcuni casi che detesto. Io e lui abbiamo lo stesso passo: ci muoviamo in disordine e con interesse, con le discese a mo’ di rincorsa e le salite a perdifiato, per impazienza.
Sfortunatamente, o meglio realisticamente, questa non è una “storia d’amore“.
Questa è una storia di un amore che nemmeno importa sapere se e quanto sia ricambiato, perché il passo è lo stesso ma le strade lontane.
Questa è solo la storia di come io ami sentire la sua voce, ascoltarlo raccontare a volte in lingue che capisco e a volte no; la storia del momento più bello che ho passato con lui, probabilmente sciocco per altri, irritante per alcuni, preoccupante perfino. La storia di come non ce ne saranno altri.
Non tutte le strade hanno vie collaterali, tanti percorsi permettono solo di scorgersi a distanza quando per caso si diradano i rami. Pensare a questa distanza mi fa piangere, ogni tanto. Se lui lo sapesse riderebbe imbarazzato e mi direbbe di nuovo “Oh ma cos’è questo, il finale di un film?!”
Finirà, e presto. Finirà dolcemente, come lui guarda i bambini, come guarda sua madre, che è lo stesso. Finirà perché non restano molti punti con una visuale in comune libera.
Non è il tipo a cui dire queste cose. Quando ci penso rido, perché so che mi risponderebbe “Signorina, tu parli in modo troppo difficile”. Qui però a essere difficili non sono le mie parole.