Per rimettersi a scrivere serve una qualche forma d’amore

Ci è voluto del tempo, e forse nemmeno serviva.

Non ho la minima idea di cosa ci sia alle spalle di questo post: l’indietro è una direzione per cui ho perso trasporto, e so che è un bene, ma nella mia mente bene e male non sono concetti funzionali, sono solo la differenza che passa tra il respiro leggero e l’addormentarsi facilmente e i lividi che lascia una violenta risacca.

Quello che mi è rimasto invece è l’appassionarmi all’amore fine a se stesso, che se non si realizza è più bello, che senza tocco rimane pulito e ha un suono buono e un profumo musicale, un respiro lento e annoiato come può essere quello del mare, solo se è calmo e fa freddo abbastanza.

Mi è sempre piaciuta la sensazione dell’aria fredda nelle sere di mezzo autunno e inizio primavera, che si somiglia tanto e mi ha sempre messo addosso inquietudine, urgenza, nostalgia. Spesso fini a se stesse.

Sono stata molto sola nell’ultimo anno, perché tra una diagnosi e l’altra, una terapia e una ricaduta – verso un fondo sempre meno lontano – ho sperimentato un senso di pace che non sapevo esistesse. Mai conosciuto prima. La novità più grande della mia vita. Mi ci sono persa in questa pace, la quiete di un grande museo appena aperto di cui sei l’unico ospite della giornata. Avevo tutto da guardare, tutto da avvertire, da tastare senza scatti né stizza, paura o dolore. Ho avuto molto da fare a piangere, quanto non avevo pianto quando avrei dovuto – rimango famosa per essere capace di lasciare qualunque cosa a metà – e a stupirmi.

Conoscere per la prima volta la pace, che pensavo di aver intravvisto in passato, finché ho capito di aver travisato come mi era stata descritta, mi ha tanto entusiasmata da far impallidire ogni interesse per qualunque altra cosa (drastica, come sempre, come un burrone).

Alck, il tizio con cui ho passato qualche anno tempo fa, è uscito di scena da un pezzo. Per la precisione, sono uscita di scena io una mattina, dopo l’ennesima serata sul suo divano con un macigno sul petto. Mi affascina sempre la mia incapacità di lasciar prevalere la realtà quando mi si promette l’opposto. Per me è difficile non credere alle persone a cui tengo; altro motivo per cui detesto quel verbo: “Credere”. Come una boccalona, come una triglia di un metro e ottanta che abbocca a qualunque sciocchezza.

Comunque, il mio corpo ha smesso di credere prima del mio ostinato cervello, e una domenica dopo una notte insonne ho caricato il furgoncino della cooperativa per cui allora lavoravo di (credevo) ogni mia cosa fuori posto in quell’appartamento nascosto (lì dentro il clima era talmente opprimente da sentirmi in clandestinità) e me ne sono andata. Alck non si era comportato bene la sera prima e il mio cervello, intontito dalla mancanza di sonno, non è riuscito a razionalizzare abbastanza scuse per fermarmi braccia e gambe. Poi ci sono state tutte le cose di quando ci si lascia trascinando un po’ i piedi, ma insomma, gli voglio bene, non è successo niente di tragico, solo di triste, e non ho altro da dire su di lui.

Finito il lasciarsi, consumati gli strascichi mentali, depressivi, piagnucolosi, il senso di pace ha prevalso (non mentirò: ci è voluto un bel po’, ma è rimasto un pilastro di novità).

Ignoravo che ci si potesse sentire in pace e basta, ma anche in pace e felici, in pace e isolati, in pace e nostalgici, in pace e arrabbiati. Le mie emozioni erano sempre state sole, totali, incontrastate e ingestibili; erano burrasca e risacca e vento a raffiche improvvise che sbattevano contro scogli, moli, muri. Ogni tanto lo sono ancora, ma esauriscono presto la loro intensità, sedotte e richiamate da un centro di quiete che le assorbe. Che strano. Chissà se mi ci abituerò mai, dopo trentasei anni di tempesta.

Come detto nel titolo, per scrivere serve una qualche forma d’amore.

Nel periodo in cui io e la pace facevamo conoscenza, non c’è stato spazio per amore, infatuazione, trasporto. Mi guardavo attorno senza vedere altro che quanto conoscevo già, con occhi ed emozioni completamente diverse. Lo sapevo da tempo che per me l’amore era più che altro uno strumento – ero convinta – necessario a costruire quel centro di quiete di cui sentivo parlare dalle persone più sane di mente di me, in diverse forme, come si sente parlare delle entità leggendarie per cui ognuno ha una diversa parabola o allegoria. Sapevo anche quanto non fosse vero, ma non potevo scollare quella convinzione dalle mie scelte. La terapia e tutto il resto l’hanno fatta cadere da sola, una crosta matura della cui mancanza ti accorgi chissà quanto dopo averla perduta.

Non bisogna pensare che io qui abbia descritto un periodo lineare: ho avuto ricadute, più di quante avrei voluto; ho avuto illusioni e delusioni, tutto quello che non si vuole, ma sono passate più in fretta, con meno tracce, senza lasciare alcuna cicatrice.

Anche lui all’inizio l’ho scambiato per una ricaduta, e forse lo è, chissà. Di certo, il mio cervello gliene ha data la forma in un paio d’occasioni e io mi sono comportata obbediente di conseguenza. Però è passata e lui è rimasto.

Una volta, scrivere mi serviva per vomitare su sfondo bianco la forza delle tempeste, ora mi pare stia servendo a parlarmi di me, di lui, di quello che mi ha insegnato – perché a rapirmi più di ogni altra cosa, continua a essere la quantità dei mondi che qualcuno è in grado di farmi vedere. I suoi sono grandi e colorati, pieni di cose che ignoro, che mi affascinano, che nemmeno so esistere e in alcuni casi che detesto. Io e lui abbiamo lo stesso passo: ci muoviamo in disordine e con interesse, con le discese a mo’ di rincorsa e le salite a perdifiato, per impazienza.

Sfortunatamente, o meglio realisticamente, questa non è una “storia d’amore“.

Questa è una storia di un amore che nemmeno importa sapere se e quanto sia ricambiato, perché il passo è lo stesso ma le strade lontane.

Questa è solo la storia di come io ami sentire la sua voce, ascoltarlo raccontare a volte in lingue che capisco e a volte no; la storia del momento più bello che ho passato con lui, probabilmente sciocco per altri, irritante per alcuni, preoccupante perfino. La storia di come non ce ne saranno altri.

Non tutte le strade hanno vie collaterali, tanti percorsi permettono solo di scorgersi a distanza quando per caso si diradano i rami. Pensare a questa distanza mi fa piangere, ogni tanto. Se lui lo sapesse riderebbe imbarazzato e mi direbbe di nuovo “Oh ma cos’è questo, il finale di un film?!”

Finirà, e presto. Finirà dolcemente, come lui guarda i bambini, come guarda sua madre, che è lo stesso. Finirà perché non restano molti punti con una visuale in comune libera.

Non è il tipo a cui dire queste cose. Quando ci penso rido, perché so che mi risponderebbe “Signorina, tu parli in modo troppo difficile”. Qui però a essere difficili non sono le mie parole.

Per rimettersi a scrivere serve una qualche forma d’amore – 6

Di che cosa sono fatti i sentimenti?
Aspettativa, emozioni, legami, vicinanza, d’accordo;
ma perché prendono forme e spingono reazioni che non sempre sappiamo prevedere o controllare?
A volte ho l’impressione che mi sia rotolato dietro a un mobile il pezzetto mancante della risposta da assemblare, e di non poterlo cercare per bene perché ignoro quali forma e colore abbia.

I miei sentimenti hanno sempre a malapena riguardato l’altra persona, mi sono resa conto negli anni;
ho una certa quantità di tumulto interno che alimenta passioni irrefrenabili, per lo più mentali.
La mente – bacata – è la mia.
Quando comincio ad annoiarmi, succedono i disastri.

Comunque, quel pomeriggio Os mi ha fatto davvero l’improvvisata promessa, e dal mio punto di vista è anche andata piuttosto male.

“Se vuoi in un’ora sono da te”
“Non posso, ho da fare”
“Bla bla bla”
“Bla bla bla”
“Comunque, in un’ora circa posso essere lì”

Era la seconda settimana di gennaio? Boh.
A me non piace moltissimo che, in nome del carpe diem, non venga considerato se io abbia già programmi, ma i programmi consistevano nell’uscire con un tizio che non m’interessava minimamente (avevo deviato l’invito molto chiaro verso una dimensione più amicale, perché odio far rimanere male le persone); (ho davvero scritto che odio far rimanere male le persone quando non riesco a evitare atteggiamenti PESSIMI verso i poveri oggetti delle mie seghe mentali? Ok: odio far rimanere male le persone che per me sono completamente irrilevanti);
ho ceduto in fretta.

Alla fine è arrivato.

Dunque.
Os è obiettivamente un gran bel ragazzo.
Dal vivo è piuttosto diverso da come appare in audio/video.
In formato digitale dà un’impressione più affilata, sia perché ha quasi sempre un’espressione corrugata che gli tira i tratti, sia perché l’uomo chiaramente si piace (e trovo la cosa divertentissima, e penso faccia bene) e conosce i suoi angoli.

Quando ho aperto la porta, mi sono trovata davanti un ragazzone timido, più cauto che insicuro, che sembrava camminasse sulle uova per l’attenzione a non fare un passo falso.

Io ero agitata.
Non che pensassi ce ne fosse bisogno, né generalmente mi presento in modo molto diverso, ma ho avuto cura di apparire al mio peggio possibile: appena uscita dalla doccia, con una tuta scompagnata, i capelli mezzi bagnati e le occhiaie in evidenza.
Non riuscivo a stare ferma, perché ho evitato di fumare nello spazio in cui abbiamo chiacchierato, dato che lui non fuma.

Abbiamo parlato.
Lui si è seduto sulla poltrona, io sul divano, e ha passato un quarto d’ora a torcersi un polso per mostrarmi foto scavalcando la distanza mentre me le raccontava;
a un certo punto l’ho fatto sedere sul divano, lungo abbastanza per mantenere la separazione che sembrava preferire.
Batteva il piede sul pavimento, tendeva a rimettere le mani in tasca, guardava per lo più la punta delle scarpe.

Io saltavo su e giù dal divano come spiritata, per un motivo o per l’altro.
Il motivo principale è che non capivo il suo comportamento e, senza un riferimento, non sapevo come regolarmi. Come la mia lunga infanzia mi ha insegnato, per adattarmi, imito. Fumare di solito mi seda, ma non lo stavo facendo.

Nonostante il disagio che scorreva nella stanza, le due ore disponibili (a seguire un impegno che non volevo disdire) sono passate in fretta. Nonostante il suo fissare verso il basso – che mi sarei spiegata solo poi – non mi sono accorta di quanto rapidamente il tempo passasse. È stato scomodo ma bello.

Alle 21.00 l’ho un po’ cacciato (glielo avevo anticipato) e non so come avesse intenzione di congedarsi, non gliene ho dato il tempo. Anche perché ero abbastanza positiva che non ci saremmo visti né sentiti, di lì in poi.

Invece, sulla strada del ritorno, Os ha ripreso a mandarmi vocali come al solito. Una cosa che mi ha fatta sentire felice, ma un po’ stranita. Non lo capivo mica.
È stato dopo che non ci siamo sentiti, almeno per un po’.

Comunque, questo post è pigro: sono di nuovo innervosita. Con me, non con lui, e non ho voglia di pensarci granché. Il mio senso di pace sta litigando con vecchi circoli viziosi, e vorrei tenermene fuori il più possibile.
Più tardi devo prendermi su e portargli in prestito il tutore per la gamba, non ho in programma di incrociarlo di persona. Glielo lascerò da qualche parte (si è fatto male, niente di tragico, ma questo viene dopo).

L’altra sera, dopo l’inizio della stesura di questo post, ho incrociato il tizio a cui avevo dato buca per Os e che non avevo più ricontattato per scelta.
Da come mi ha guardata, ci è rimasto male. Ma anche il suo abbandonare il bar un secondo dopo potrebbe essere un buon indizio. Onestamente non mi interessa nemmeno un po’. Lo rifarei.
Ci ho fatto caso solo perché mi ha irritata pensare che, per aver bevuto in precedenza un bicchiere insieme (alla fine di un aperitivo con amici comuni, di quelli in cui ti trovi per caso passando davanti al solito bar), si sentisse in diritto di guardarmi così. Come se gli avessi sottratto qualcosa.
Realizzo, mentre scrivo, che è esattamente come mi sento verso Os.
Che sfigata che sono.



Appendice sulla sicurezza nelle conoscenze internet ➡️ realtà

Sono vent’anni che incontro gente online e poi nel mondo reale;

ho incontrato cotte, conoscenti con interessi specifici in comune, nuovi amici o amiche, gruppi di utenti da siti in particolare, personalità di settori specifici, eccetera.

Il mio caso rientra tra quello delle persone che inquadrano molto bene chi sta dall’altra parte, che sia con uno schermo in mezzo o no. Come il mio terapista ha ripetuto, sono “una profiler”, perché da bambina venivo sballottata tra un numero eccessivo di contesti in lotta tra loro (pezzi di famiglie, case di vicini o amici, parenti più distanti) e ho imparato presto a regolare il mio comportamento di conseguenza, una volta individuati i segnali da tenere in considerazione.
Questo per dire che non è un’arte improvvisata, “leggere” le persone, ma un’utile forma di risposta a vivere nell’ansia costante di non capire cosa stia per accadere, senza punti di riferimento fissi.

Mi sono mai sbagliata, sull’impressione iniziale avuta online rispetto al contraltare materiale?
No.

Mentre le parlavo di Os, Zia G veniva dalla visione di un docucoso crime sulla vicenda di una giovane donna che era uscita con un tizio conosciuto su un’app di incontri. La prima volta era andato tutto bene, tanto da programmarne una seconda, in cui lui l’ha letteralmente smembrata e fatta a pezzettini.
Il primo era stato un incontro pubblico, se ricordo correttamente; il secondo in albergo.

Specifico che trovo perfettamente normale il desiderio di soddisfare bisogni fisici e suppongo che la povera vittima pensasse di essere stata diligente a sufficienza, preoccupandosi di incontrare la persona prima in un contesto aperto, dunque più sicuro. Purtroppo non è tra le accortezze più efficaci, se dall’altra parte c’è una merda, e lo scopo del post è illustrare come funziona, secondo me.

(Ovviamente l’esempio estremo alzato da Zia G non è lo scenario più frequente, ma capitano incontri sgradevoli e che lasciano feriti anche per molto meno che l’assassinio).

“Ma anche questo qua, io ci credo che sia una persona carinissima, ma tu come fai a sentirti tranquilla fino in fondo incontrandolo la prima volta? A casa tua poi” non si capacitava Zia G.

La domenica in cui ci saremmo dovuti incontrare – dopo il capodanno sabotato dall’influenza – pioveva e ci sentivamo gia da settimane, motivo della scelta domestica. Ma non è per questo che mi sentivo tranquilla.

Allora

un elemento fondamentale alla sicurezza personale, non solo online
è rendersi conto che la scelta di una potenziale vittima comincia quasi sempre a monte
e più di frequente sulle app di incontri o nei luoghi virtuali accomunati dal medesimo scopo.

Banalmente, perché è più facile.

Ho incrociato Os – ma anche le mie precedenti cotte virtuali – via social (Instagram) parlando di Palestina. Per settimane abbiamo commentato esclusivamente fatti legati alla carneficina in corso. Zero domande personali, zero richieste di informazioni specifiche, solo una chiacchiera casuale su un argomento caro a entrambi. Sono stata io a cominciare a interagire di più, dopo oltre un mese.

Sulle app di incontri (che ho comunque usato, anche di recente con risultato davvero sgradevole, ma lì è stata colpa mia, e nessun pericolo percepito) il “copione” è chiamato. Lo spazio che in altri contesti viene occupato dalla chiacchiera spontanea è già suddiviso in base allo schematico, snervantissimo, “Ciao, di dove sei, di cosa ti occupi, qual è il tuo colore preferito, bla bla bla”.

Per me, come qualcuno collega le idee, cosa sceglie di dire, da cosa è mossa la sua attenzione, come ragiona, è un insieme di info fondamentali. La scaletta mi annoia e mi toglie dati necessari.

Poi vabbè, c’è tutto un trattato che potrei scrivere sugli account che eviterei in partenza, riassumerò dicendo che l’uomo con l’entusiasmo debordante va escluso a priori, idem quello con i cuoricini dai primi scambi. Fidatevi.

Ben prima che decidessimo di vederci, senza oltretutto scopi sentimentali o che, Os mi aveva fornito spontaneamente (chiacchierando) informazioni su dove abita, la sua famiglia, il suo lavoro, la sua visione di fatti di cronaca-politica-società (commentando le notizie, non sotto mio questionario) rimanendo sempre coerente, la sua religione, il suo giro d’amicizie. Sapevo molto più io di lui di quanto sapesse lui di me. Non ero io quella che avrebbe dovuto far più attenzione forse, tra i due.

Per quanto mi riguarda, i miei social sono pieni di video e di me si conoscono:
– aspetto (indifferentemente sciatto o gradevole a seconda del mio umore)
– indole (belligerante)
– età (più che adulta)
– grado polemico (elevato)
– fisicità (sono circa 1.80 e zero esile)

insomma, non offro un profilo che attrae i comuni prevaricatori. Io sono una prevaricatrice per indole (che negli anni ho imparato a gestire) e pure senza filtri.
L’elenco di poveri innocenti che cercano regolarmente di sminuirmi online riempirebbe un elenco telefonico del ’94.
Mi turba? No, mi accende. Una schizzata con l’ego a prova di bomba non è l’interlocutrice che fa fregare le mani a qualcuno che cerca vittime, specie se non si fa problemi a liquidare direttamente, bloccare, ignorare.
Tratto allo stesso modo chi mi riempie di complimenti immotivati.
I loro ego non esce soddisfatto dal confronto col mio, ed è essenzialmente quello che cercano ’sti loschi figuri.
Altro utile effetto collaterale del crescere in un contesto abbondantemente disfunzionale. Mi faccio infinocchiare solo per scelta, e le mie scelte includono sempre la sicurezza personale, nel mondo reale o no.

La maggioranza degli individui pericolosi – a qualunque livello – gioca sulla legge dei grandi numeri: contattano svariati profili e poi scelgono chi meglio si presta, per insicurezza, docilità, inferiorità fisica.

Per quanto la mia esperienza sia ovviamente personale e la strategia (spontanea in realtà, non ho bisogno di ragionarci per metterla in pratica) si basi sulle mie precise caratteristiche, in generale ad altre (soprattutto) e altri consiglierei:

  • evitare app d’incontri se afflitti dal bisogno di accontentare sempre tutti: un modo certo di esporre il fianco;
  • usare amicizie più smaliziate come metri di confronto, specie se si è timidi o chiusi: mai tenere per sé l’avere a che fare regolarmente con ignoti/e, anche solo perché parlarne può aiutare a mettere a fuoco segnali pericolosi che a noi possono passare sotto radar;
  • diffidare SEMPRE E COMUNQUE di chi si lancia in apprezzamenti sperticati troppo in fretta (ad esempio su caratteristiche solo supposte, “Si vede che sei una persona meravigliosa”, o “Non sei come le altre”). In alcune persone producono una bella sensazione, ma come fanno a essere sinceri?
    E, se anche fossero sinceri, quanto varrebbero da qualcuno che li usa con tanta facilità? Cestinare;
  • non dare per scontato che basti un incontro in pubblico per sentirsi sicuri.

Se io avessi avuto anche solo il dubbio che Os, o qualunque persona che per ogni motivo ho incontrato via internet, potesse costituire un rischio, il mio interesse sarebbe sceso istantaneamente.
Se qualcosa ci fa sentire anche solo vagamente a disagio, è a quel qualcosa che va data sempre e comunque la precedenza. Senza se e senza ma.
E non ci si deve preoccupare di dichiararlo, anzi.
Come un interlocutore reagisce a una manifestazione di disagio è un dato importante.
In caso di incontro dal vivo, non è sempre un buon consiglio. Il consiglio migliore per questo scenario è in fondo al post.

Probabilmente l’unico senso coesivo che posso dare a questo post, dato che l’argomento non è realisticamente trattabile con un piccolo tema, si riassume con:

non dovete nulla a uno sconosciuto o a una sconosciuta.

Non lasciatevi forzare, pure gentilmente, a fornire informazioni superiori a quelle che vi sentite a vostro agio a fornire, non date indirizzi personali (casa o lavoro); non sentitevi tenute/i a incontri che vi lasciano anche solo una punta di dubbio. Scegliete ambienti che conoscete o dove qualcuno vi conosce per incontri approssimativi (l’oste della mia enoteca preferita sa sempre se sto sedendo con uno sconosciuto)

e, se vi trovate davanti a qualcuno che vi mette a disagio, prendete su e andate via, che vi serva una scusa o no. La scusa migliore rimane l’attacco di diarrea, sappiatelo.

Per rimettersi a scrivere serve una qualche forma d’amore – 5

Ieri l’altro, mentre preparavo il post di ieri, ho mandato due vocali a Os per raccontargli che stavo di nuovo scrivendo sul mio blog accantonato da un sacco di tempo e che, trattando per lo più di seghe mentali, stavo parlando anche di lui. Ho concluso con “stavo pensando a che cotta idiota m’era venuta, ma ti pare alla mia età?!” Quanti gerundi.

È divertentissimo il dibattito interno che mi genera come, per tre quarti del tempo, ’sto uomo non registri né cosa dico io, né cosa dice lui.

Comunque, quando parlo di “Muri di gomma” non lo faccio a caso: è proprio una categoria che mi appassiona, quelli a cui tutto quanto io possa sclerare rimbalza addosso perché di me alla fine importa loro poco. Mi sono rassegnata al fatto che, in un rapporto vero, non può essere così. Per una cotta online va benissimo invece.
A Os posso dire qualunque cosa, anche qualcosa che mi pesa, e non dovrò mai preoccuparmi di averlo fatto perché passati trenta secondi non ne avrà più idea. Non m’interessa nemmeno sapere se si tratti di disinteresse o di amnesia.
Considerato che, da credente praticante, non beve alcolici né consuma sostanze di alcun tipo, per una come me che ripassa ogni conversazione in testa duemila volte (motivo principale per cui ho cancellato le nostre conversazioni passate: ci mancava pure il supporto testo-audio-video) è un fenomeno divertentissimo. E io bevo! Cos’abbia speso tutte quelle ore a parlare con me a fare resta un mistero che non si porterà nella tomba solo perché non lo sa più neanche lui.

A ridosso dell’ultimo dell’anno, dopo essersi fatto sentire a malapena il giorno prima (all’epoca cosa inaudita e poco men che inaccettabile), mi manda un vocale che trancia i programmi: purtroppo sarebbe stato impegnato, il giorno successivo. A fare quel che io avevo fatto fino al 23 dicembre:
sputare
i
polmoni.

“Ma se domattina sto meglio ci sono, va bene?”

Ah, a me andava bene, ma se si trattava della stessa influenza che stava succhiando l’anima a mezzo mondo… Povero ingenuo.

“No no mi passa subito, è che non so se mi passa per domani o dopodomani” è più o meno quello che ha assicurato, tra la detonazione di un bronco e l’altra. Un’illusione che non mi sentivo di infrangere. Ci ha pensato la realtà.
La quantità di colpi di tosse e schifo respiratorio generale ascoltati via vocale nei giorni a venire fu memorabile. Dovessi passare davanti allo studio di un pediatra in autunno, soffrirei di flashback.

“Mi hai portato sfiga Tazza, di solito queste cose mi passano in un giorno o due”

Non gli è passata in un giorno o due, ma nemmeno in tre o quattro. Se l’è portata dietro più di una settimana, e in quella settimana ci siamo sentiti tantissimo, ed eravamo nei giorni stagnanti dopo le feste, e la mia testa ha fatto ben poco a parte parlare con lui.
Motivo per cui ho iniziato a sclerare. L’ansia ha prevalso. Dopo la terapia, il farmaco (che era a un dosaggio troppo basso ma lo psichiatra l’ho rivisto solo poi) ecco che mi trovavo dieci caselle indietro, a ripartire da capo al gioco dell’oca che ero, per lasciarmi allagare ancora una volta da queste sciocchezze prive di senso.

Per fare una sintesi poco lusinghiera del mio atteggiamento di quel periodo, userei il termine “Fissazione”. Poi le feste sono sempre difficili per noi psicostorti. Il mio umore volteggiava in altalena come un bimbo spericolato in spiaggia. Ci sentivamo troppo, ci pensavo troppo, tutto troppo.

Comunque, in 5-6 giorni la parte invalidante dell’influenza era passata e avremmo dovuto vederci la domenica successiva, si era deciso.
Il sabato avevo un filo sclerato, sia perché un’improvvisa potenziale preoccupazione fisica mi aveva agitata (alla fine non era niente di che), sia perché è quello che fa il mio cervello punto. Non è che mi servano motivi proporzionati.
Tra un (mio) capriccio e l’altro, per cercare di riportare nel reale la mia mente bacata gli ho chiesto di chiamarmi, mentre mi aggiravo per casa come lo stracciato fantasma lamentoso di una persona funzionante. Lui lo ha fatto, e ha iniziato a chiacchierare mentre io, ancora risucchiata dal dondolìo, rispondevo quasi a monosillabi e piano piano ridevo sempre un po’ di più.

Parlare con lui senza una traccia o un argomento in particolare è un po’ come parlare con una vittima di stroke. “Ah, quindi hai visto cos’è successo in Egitto. E preferisci il té alla pesca o al limone? Le persone alte lo preferiscono alla pesca secondo me, ho questa teoria. Dici che domani piove? Sai che una delle mie sorelle ha la tua età? Ho mangiato pasta al sugo. Giochi ai videogiochi?”

Cosa ci posso fare se lo trovo tanto divertente?
A fine telefonata ero quasi a posto. “Dai, allora rimaniamo che ci vediamo domani” ho borbottato.
“Vaaaa bene signorina! Oh, ma siamo stati al telefono un’ora e venti?! Ma chi sei tu per farmi stare al telefono un’ora e venti?! Allora a domani!”

Una cosa di Os che mi farà letteralmente sciogliere per sempre, è la sua voce. Me lo ricorderò ancora a lungo, il suono di quel “Ma chi sei tu, per farmi stare al telefono un’ora e venti?”
L’ho raccontato per telefono alla mia amica Ine e lo abbiamo commentato come fanno le liceali nei telefilm.

Il giorno dopo, non è riuscito a venire.
Non racconterò online gli affari suoi; basti sapere che era una questione di auto e che non dipendeva dalla sua volontà. Però dalla sua zero capacità organizzativa sì.
“Io non la faccio un’altra settimana così” gli ho sbottato, come se fosse colpa sua che a malapena potessi pensare ad altro.
Devo averlo anche bloccato a quel punto. Democraticamente, su tutte le piattaforme.

“Come si chiamava il cane nero?”
Ero malmostosamente seduta in poltrona, non avevo molta voglia di rispondere a Zia G, che come tutto il globo terracqueo, sa perfettamente quando ho in corso una cotta insensata e, a seconda dell’argomento del true crime ascoltato più di recente si sente spaventatissima (o per nulla) dal mio incontrare nella realtà persone conosciute solo online.
Quella era la sua domanda per verificare che fossi viva, anziché fatta a pezzi e gettata in sacchi del rusco, come la sfortunata ragazza del docu-dossier che aveva guardato in una recente notte insonne.
“Non è mica venuto”
“Ah, sei sola?”
“Giuro di sì😂”
“Allora posso passare? Lo zio è in pronto soccorso”.

Alla fine è andata bene così dunque: sono andata io in PS, mio zio non aveva niente di pericoloso ma estremamente fastidioso e da trattare attentamente, poi è arrivata Zia A, siamo andate a casa sua dove aspettava notizie lo Zio P ed è arrivata anche la cugina col moroso e abbiamo passato una domenica pomeriggio piovigginosa ad aspettare che ci restituissero lo zio mancante.

In serata poi ho sbloccato Os. Era un po’ confuso dal perché lo avessi bloccato, ma ovviamente non gli interessava granché.
Non ricordo benissimo quegli scambi ma volevo chiudere davvero la comunicazione. Perché era una ricaduta, perché era troppo, perché il senso di pace sperimentato per la prima volta nei mesi precedenti era scomparso, scavalcato completamente dai miei sciocchi turbamenti. Solo che non riuscivo.
Os mica ne aveva idea, e scherzosamente cercava di rabbonirmi dove gli sembravo innervosita o di chiacchierare come al solito nel resto del tempo.

“Dai, basta, è tutto troppo esagerato. Sono fissata con te come con il personaggio di un libro e non ha senso”
“Va bene, ti scrivo nel fine settimana!” è stata la sua risposta al mio drammaticissimo voler sgonfiare la cosa.

Figuriamoci, ci saremo mandati qualche link il giorno dopo, e tutto è continuato come prima.

Finché, un giovedì pomeriggio, mi ritrovo tra le notifiche: “Ho finito presto oggi, se vuoi in un’ora sono da te”.

Per rimettersi a scrivere serve una qualche forma d’amore – 4

Come dicevo a Tullio nei commenti all’ultimo post, non è stata tanto un’attrazione mentale di contenuto, quanto di modalità.
Io e Os saltabecchiamo in percorsi paralleli, che si somigliano per tanti aspetti ma sono costruiti su fondi completamente differenti. O forse non sono i fondi a essere differenti, ma la scelta di quale strada imboccare al bivio che separa le nostre visioni del mondo. Però abbiamo un passo simile, un’allegra insofferenza condivisa (se lui leggesse questa espressione non avrebbe idea di cosa intendo e nemmeno gli interesserebbe) e una certa disposizione a ricevere attenzioni ognuno alle proprie condizioni, cosa che mi ha fatta strippare poi, come al solito. Ci scorgiamo, sempre da una certa distanza, quando la traiettoria dei sentieri si fa vicina.

“Quindi secondo te sono basso?”

Ero un po’ agitata. Ci saremmo dovuti incontrare di lì a tre giorni suppergiù e l’aspettativa che distrattamente avevo costruito andava cambiata. Come detto, ho cercato tra i suoi video e l’ho visto. Inopportunamente bello per l’occasione e l’uso che intendevo farne, e decisamente alto.

“Ok, sei alto. Più alto di me, forse poco oltre il metro e novanta. Che dev’essere più o meno anche il tuo anno di nascita”, ho tentato.
“Accidenti, dove lo hai visto?”
“Nella marea di tuoi video, che non mi era neanche venuto in mente di cercare prima”
“Ah, mannaggia mannaggia, beh allora giochiamo a carte scoperte dato che sai quanto sono alto e quanti anni ho. Tu quanti anni hai?”
Cazzo.

Dalla mia ultima infatuazione digitale, che onestamente nemmeno ricordo quale sia stata, era passato talmente tanto tempo che avevo scordato di non aver più tra i venticinque e i trent’anni, fascia d’età che va un po’ su tutto. Non ci avevo proprio pensato, fino al momento in cui mi era detonato in mente il problema. Che non è che fosse un problema, era solo un ostacolo immaginario alle mie fantasie, le quali poggiano sul numero maggiore di dati realistici possibile per essere efficaci, persistenti e in definitiva la più grande perdita di tempo mentale possibile. Mi rovinava la sceneggiatura ‘sta cosa.

Lui aveva 29 anni, io 37 (dall’inizio della vicenda non è morto, ne ha compiuti 30).

“Beh… in che mese sei nata?”
Ho riso cinque minuti, come se lo chiedesse a qualcuno che si fa problemi in pratica per due-tre anni di differenza. Io me ne facevo in teoria per otto! Che fossero sette e mezzo (lui gennaio, io luglio) non mi cambiava nulla!
“Luglio. Vabbé dai, mica ci dobbiamo sposare”
“Ma infatti” ha convenuto lui.
Però ci stavamo ancora pensando.

Nessuno dei due era poi davvero, concretamente interessato agli anni, penso fosse più che altro un ostacolo narrativo, o un tipo di differenza da mettere in conto che non avevamo considerato.

Specifico che conosco e apprezzo la compagnia di un sacco di ragazzetti e ragazzette, quando si tratta di chiacchiere, del corso di teatro, di volontariato o contesti simili, ben più giovani di così.
Scambiarsi messaggi costanti con qualcuno tanto più giovane mi faceva stranissimo invece;
ma Os, con la levità che lo contraddistingue, è gentilmente passato oltre.

Ed è giunto il momento di rendere giustizia a due cose: all’adorabilità di Os e alla mia (FINALMENTE) capacità di abbandonare l’egocentrismo totalizzante che ha contraddistinto per tre decadi le mie seghe mentali. Olè!

Os è la personificazione del gigante buono.
Non è solo un muro di gomma (caratteristica che apprezzo eccessivamente e si traduce nel disinteresse, come fu per Alck che riusciva a ignorare certi miei malesseri brutali solo perché non poteva fregargliene di meno) che comunque segue le mie paranoie fino a un certo punto. Lui è proprio gentile sotto ogni aspetto di cui abbia fatto esperienza. È gentile con me, è gentile con gli sconosciuti, lo è con gli animali, tantissimo con i bambini e infinitamente con i suoi genitori. Sua mamma in particolare.
Una cosa che gli ho detto di recente è quanto mi piace che guardi sua madre e i bambini con gli stessi occhi.
Mi ha mostrato un sacco di video e foto della sua famiglia e amici, sia via chat – avendo cura di impostare la singola visualizzazione per ogni contenuto, che è una bella attenzione verso chi altrimenti si troverebbe nella memoria del telefono di un’estranea nota solo a lui e fino a un certo punto – sia dalla galleria del suo telefono di persona. Ma sto saltando troppo avanti. Comunque, una cosa che per lui rimane importante mantenere salda è l’essere rispettoso. Con me lo ha sempre fatto.
Sono contenta che ci siamo incrociati.

Io, a parte i bassi di uno sclero o due (facciamo tre) che mi hanno brevemente risucchiata, nello spazio da fine novembre a circa due settimane fa (cavolo, nella scala temporale delle cotte virtuali ci sentiamo da tantissimo) mi ritengo soddisfatta per essere riuscita a non perdere completamente di vista che lui non esiste in funzione di me. E non gli ho neanche tirato su drammi ogni volta che il mio umore ballerino oscillava! Son qua che mi stringo le mani da sola.
Non so bene come spiegarlo, sicuramente siamo tantissimi a sentirci così, specie se aspetti dell’infanzia mai risolti hanno continuato a echeggiarci nella quotidianità per tutta la vita; nel mio caso, che non avrei dovuto nascere. Me lo hanno ripetuto così tante volte, per giustificare mancanze nei miei confronti, o qualunque cosa andasse storto nel rapporto tra le mie due famiglie, o per sottolineare quanto fosse sorprendente invece la buona riuscita di alcuni miei rapporti con parenti stretti messi in difficoltà dalla mia apparizione, che qualunque cosa mi ferisca (raro) anche solo di striscio, in automatico nella mia testa diventa colpa mia. “Non dovevo essere qui” o “Non dovrei partecipare” o “Ecco, non vuole davvero parlare con me”. Che sì, magari è triste, ma anche fastidioso: una fila di me, me, me infinita.
La gente ha pure i cazzi propri, non è che se prendo di banda io allora automaticamente devo rivalutare da capo la mia venuta al mondo o l’intera percezione che la persona in questione ha di me. Me-me-me.

Os è stato utile in questo, senza saperlo. Mi sono esercitata a gestire la frustrazione del suo… avere una vita fuori dallo scrivermi. Perché se dicessi “Delle sue assenze”, sbaglierei. Lui non era assente, semplicemente non è mai stato tenuto a rispondere in tempo reale al mio appello. E non ha mai mancato di farlo, prima o dopo.
Sì, ho compiuto l’errore di costruirlo in testa un po’ troppo a modo mio, in base alle poche informazioni disponibili e agli abbinamenti di forme e colori che trovavo più appropriati, ma ho cercato di evitare (con parziale successo di buona percentuale) di non farlo pesare a lui. Le volte in cui è successo le ha sentite forti e chiare, e mi spiace, ma insomma: meglio di così non potevo fare.
E poi, sarà pure adorabile, ma oggettivamente ha anche tratti di cui non sono una fan sperticata. La distanza permette di ignorarli, il fatto che non ci rivedremo li rende irrilevanti.

Alla fine non ci siamo mica incontrati a capodanno.

Per rimettersi a scrivere serve una qualche forma d’amore – 3

Quanto mi sono divertita ad ascoltare improbabili spezzoni di conversazioni industriali, di consegne lampo, frammenti di discorsi colmi di dilemmi logistici o grida di magazzino appena distinguibili nel rimbombo di un capannone. Chissà perché poi lui si divertiva tanto a mandarmene. Ho riso, riso, riso; riso così tanto in quei pezzetti di giornate non mie. Vero è che mi diverto con poco, basta che sia una bella storia. Os era un narratore giocoso ed efficace, io il pubblico entusiasta che non se ne stancava mai.

Dato che questi post non hanno l’ambizione di coltivare chissà quale mistero, tanto vale che sputi il primo osso: al terzo messaggio che ci siamo scambiati, quindi in grande anticipo rispetto agli scambi successivi, il primo “Inshallah”.

Una cosa che facevo già, ora più di frequente per via degli argomenti in comune tramite i quali parlo con sconosciuti online e non solo, è specificare il più tempestivamente possibile che non sono religiosa e che, anzi, ho proprio un’avversione per le religioni in generale. Non importa quale. A me urta il concetto stesso di “Credenza”. Credere si oppone a imparare, crescere, a cambiare quello che non va. E spesso alimenta l’ignavia di chi usa un sistema di valori per comodo, senza nemmeno prendersi il disturbo di aderire in prima persona.

A lui non importava granché. “Finché la si vede allo stesso modo sulle cose importanti, non cambia niente” mi ha detto, o una cosa del genere.

Per chi negli anni ha avuto modo di buttare la TV e parlare con arabi, o seguire outlet arabi, è ormai noto come “Allah u Akbar”, “Inshallah”, “Al hamdulillah” siano invocazioni costantemente usate come intercalari, come “Dio mio”, che vanno un po’ su tutto. Niente a che vedere con la distorsione aggressiva che i nostri media farlocchi hanno appiccicato loro addosso.

“Lo diciamo quando siamo tristi, contenti, stupiti, arrabbiati, spaventati” mi raccontava. “Lo devi pronunciare così, con questa h qui”.

Sono stati i suoi vocali strani a farci passare da cordiali contatti con scambi occasionali a conversatori abituali; i suoi vocali e la mia voglia di un diversivo. Non è stata una spardata ingestibile, più tardi mi ci sarei tuffata in questa scioccheria, poi abbiamo sguazzato in due.

Un pomeriggio di fine dicembre, mentre aspettavo una cliente, gli ho buttato lì: “Se ti capiterà di passare nella mia zona, batti un colpo che prendiamo un caffé”. “Beh possibile, non è che passi di lì, però chissà”, “Beh ma vai tranquillo, io te l’ho detto”, bla bla bla, “Senti, aggiungimi su Whatsapp che si fa meglio”.

BAM! Fiumi di parole. Dubbi esistenziali senza soluzione di continuità. Un salto continuo di palo in frasca, poi di frasca in frasca, poi un parkour avanti e indietro senza filo logico apparente. Per chi, come me, ha un disturbo dell’attenzione, la cosa più rilassante possibile, perché distrarsi era irrilevante. Lui si distraeva molto più di me e in seguito ci avrei messo un bel po’ prima di iniziare a trovarlo frustrante (se la mia attenzione è disturbata, la sua esiste a malapena).

Insomma, ci ha messo poche ore a diventare una sorta di nuova – pur conosciutissima – forma di dipendenza. L’unica attenzione che non subiva disturbi era quella che volevo da parte sua, e che lui voleva da parte mia.

“Potrei esserci domenica” ha scritto a un certo punto. “Domenica è capodanno” gli ho fatto presente, “non è che te lo sei scordato? A me cambia niente” (l’anno scorso ho provato a uscire con vecchi amici, i vecchi amici li ho visti volentieri ma la serata a cui ci eravamo uniti non è piaciuta a nessuno di noi vecchi).

Non gli interessava: “Io di solito improvviso”.
Scema io anche solo a pormi il problema. “Allora ok, rimaniamo per il 31”.

Siamo rimasti d’accordo per il 31. Mancavano pochi giorni, nel frattempo parlavamo di Natale (che chiaramente lui e la sua famiglia non festeggiano) e di consegne strane più frequenti sotto alle feste, e di cosa cucina sua mamma, dove sono i suoi fratelli e le sue sorelle, e poi della mia famiglia, di come festeggiamo, brevi aneddoti sparsi, cose così. Tutte mescolate. L’ho specificato che è un italiano di seconda generazione? Le sue origini sono nordafricane.

Ah: io, in tutto questo, non avevo idea di quale aspetto avesse.
Lui conosceva benissimo almeno la metà alta del mio corpo, non perché ci siano miei mezzibusti sparsi per la regione, solo perché ci sono svariati miei video sulle piattaforme dove ci seguivamo.

Quando mi interessa sapere che faccia ha qualcuno, sono perfettamente in grado di scovarla, se si trova online. Onestamente, non mi interessava troppo. Almeno finché non ci eravamo messi d’accordo per trovarci e, anche lì, rientrava più tra le mie curiosità di profilazione. Lo diceva sempre il mio terapista che sono “una profiler”: mi viene bene osservare le persone e trarre informazioni da come dicono qualcosa (più che da quello che dicono), dal tipo di foto che scelgono di postare, in base all’abbigliamento, eccetera. Mi viene spontaneo, è involontario come avere fame.

Pigramente, l’ho cercato su Facebook (che lui nemmeno usa, ma non lo sapevo e non mi sono posta il problema) e dato che il suo nome è inusuale in Italia ho preso per buona l’unica foto che mi è uscita.

Fun fact: il suo nome non è tanto inusuale quanto pensavo, e quel tizio non era lui. Ma a me interessava solo attaccare una faccia ai nostri scambi. La quota di salute mentale stabilmente riguadagnata (non molta sul totale) permetteva alla mente di farsi questi viaggi, ma teneva il culo stabilmente ancorato al pianeta Terra. La dimensione materiale poteva rimanere intoccata.

Non mi è passato neanche per la testa di andare a cercare tra i suoi reel (nella pagina di IG non c’erano foto sue per il poco che ho scrollato, ho dato per scontato non ci fossero nemmeno video) o sul suo TikTok che nemmeno mi è passato per la testa pur sapendo che esistesse. Non m’importava indagare. Altrimenti avrei visto subito che il tizio mingherlino, probabilmente più minuto di me (sono una gigiona alta) dall’espressione un po’ mesta, non c’entrava nulla con lui. Ma a me andava benissimo: mi divertivo a parlarci, mica dovevo guardarlo. A un certo punto eravamo anche d’accordo che sarebbe stato più divertente beccarci alla cieca per fare un giro a caso in campo neutro (Bologna, dove nessuno dei due abita) senza darci in anticipo dettagli aggiuntivi, ma lui aveva più dati visivi di me.

Comunque, ero tanto presa dal mio cantastorie interattivo che, quando siamo arrivati a parlare – non ho idea di come né su quale frasca fossimo – di aspetto e cose simili (forse perché avevo buttato lì che sono alta e ogni persona che mi incontra prima online e poi dal vivo se ne stupisce), è diventato chiaro come avessi preso una cantonata.

Piccata dal mio pressapochismo e incuriosita dai suoi commenti (“Ah, quindi sono basso?” “Sì, nella mia testa sì”) sono andata a vedere dove avrei dovuto guardare dall’inizio, avessi voluto vederlo.

Un minuto e mezzo ci ho messo. Prima persona a cui faccio caso con zero foto ma una secchiata di video online. Non c’entrava nulla con il sottile omonimo dall’aria triste. Era bello, davvero bello. Un po’ troppo bello, non per essere vero: per rimanere un terreno sicuro per me.

A quel punto, mi ha fulminata il secondo osso da sputare in questa storia. Come avevo fatto a non pensarci? Ma perché poi avrei dovuto pensarci? Non lo so, era rilevante? Non lo era? Sarebbe stato un elemento narrativo che avrebbe cambiato le sorti della nostra conversazione?
Qualunque fosse il motivo, mi è venuto un colpo, e gliel’ho chiesto:

“Ma tu, quanti anni hai?”

Per rimettersi a scrivere serve una qualche forma d’amore – 2

Cominciavo ad annoiarmi. Non di giorno, durante il quale, presa da mille cose, passavo il tempo libero a giochicchiare con il telefono e a leggere notizie sempre più inquietanti qui e là. Mi annoiavo la sera, nei momenti dopo cena felicemente (finalmente!) solitari ma agitati dalla mancanza di un interesse su cui sedare i pensieri.

Nella mia vita ho preso cotte vere e proprie per qualunque cosa: imbecilli, personaggi di cartoni animati non necessariamente umani, personaggi di film non necessariamente umani, esponenti letterari, poeti, scrittori, facce sconosciute di cui leggevo una citazione forse correttamente attribuita. Persino qualche bravo ragazzo. Non ho mai avuto bisogno di realismo per questi innamoramenti, fiammate improvvise e apparentemente immotivate, di durata e intensità variabile;

né le caratteristiche delle mie emozioni cambiavano tra innamoramento ovviamente immaginario e più reale. So che esistono persone per cui questo discorso è fuori di testa, altre che capiscono perfettamente cosa intendo, a ognuno il suo.

Pensavo di aver trovato un giocattolo teorico adatto nell’incontro con un conoscente.

Dopo tutto il tempo trascorso dalla fine della storia con Alck, ero più che altro interessata a scoprire se avesse ragione il partito secondo cui l’interesse per qualcuno prima e le relazioni di coppia poi sono qualcosa che comincia a poco a poco, una pioggerellina che alla lunga lascia inzuppati (come dice un libro letto di recente), e non queste spardate sgraziate di assoluti. L’interesse per qualcuno sorge anche lentamente, costruendolo incontro per incontro, o per chi è fatto come me esiste solo la strada dell’ustione chimica che ti investe la pelle e spezza il fiato anche alla mente? Non lo so, al momento la prima versione non mi è ancora capitata, che io ricordi.

Era già in corso da qualche settimana l’orrenda carneficina del popolo palestinese che ancora va avanti, e avevo ricominciato a usare Instagram. La piattaforma mi chiuse fuori anni fa dal mio profilo precedente (mai saputo perché, ma pace) e non è che lo usassi particolarmente nemmeno allora, ma con – finalmente! Pur a un prezzo ingiustificabile – l’interesse sull’argomento aumentato, ho cominciato a condividere selvaggiamente contenuti, ripreso a bisticciare sui social, cose del genere. A me interessa per lo più spiegare quel che accade ai miei conoscenti, perché so che il loro inglese non esiste e che la tv rimane la loro fonte principale d’”Informazione”, ma qualche nuovo contatto è arrivato. Lui è arrivato senza che me ne accorgessi.

Personalmente non trovo grandi differenze tra incontrare qualcuno online o dal vivo, penso sia personale e per quanto mi riguarda non ce ne sono di più tra internet e conoscere qualcuno per la prima volta in un contesto reale e poi in un secondo, diverso; magari prima a una festa e poi a un caffè pomeridiano.

Comunque, in quel periodo di fine novembre stavo misurando l’accoppiata pace – potenziale-interesse-per-qualcuno-che-sulla-carta-è-simile-a-me, con risultati deludenti.

I risultati deludenti non so se riguardino il fatto che, se come me si è bipolari, il farmaco adatto attenui le burrasche o se il qualcuno in questione semplicemente non fosse troppo nelle mie corde. Anche l’abbuffarsi non mi ha più dato una grande soddisfazione dopo l’inizio della terapia (e ci ho provato a usarlo, durante le ricadute). Volevo un up, volevo una vivace sega mentale, fiduciosa che il farmaco mi avrebbe sostenuta nel tenerla circoscritta, al riparo dalle emozioni più viscerali. Chi è causa del suo mal, a volte ha solo ottenuto quello che desiderava.

“Ma sì, parliamo con lui” ricordo di aver pensato, tra me e le mie personalità.

Non ho più le nostre conversazioni iniziali, i primi messaggi vocali, tutte quelle reliquie di malinconia attorno alle quali i miei neuroni intessono leggende e viaggi davvero troppo lontani dalla realtà. Terapia e farmaci non fanno magie, né cambiano la nostra natura. A un certo punto ho dovuto realizzare, come avevo già fatto per la roba materiale, che anche conservare religiosamente ogni pezzetto di discorsi, battute e scambi è solo un seppellirsi da soli in fantasie deliberate e arbitrarie. Non mi fa bene, non mi va bene. A me le religioni non piacciono per niente, quando sarà finita non voglio avere il testo sacro di un sentimento che più o meno è stato. Lo desidero, ma non lo voglio più. Come per (quasi) tutte le mie paure peggiori, dimenticare è una cosa che ho cominciato a scegliere apposta. Mi piace più di quanto mi faccia male, mi permette di andare avanti, a volte più triste ma aiuta la pace. Quindi va bene così.

In fondo, è cominciata piano: mi commentava le storie Instagram, tutte sulla Palestina, che seguo e per cui piango da ormai oltre quindici anni. Io rispondevo, finché sono passata a parlarci; sono due cose diverse parlare e rispondere. Perché mi aveva mandato un vocale dove sì: commentava i post che ci eravamo scambiati, ma lo aveva anche lasciato andare, registrando e inviandomi lo spaccato più incomprensibile di una felliniana consegna presso chissà quale stabilimento, a chissà chi ma di certo un personaggio dalla cui voce stavo inventando aspetto e manierismi, e io dopo averlo ascoltato non smettevo più di ridere. Rido anche adesso, per non far troppo caso al fatto che non ci sentiamo da un paio di giorni. Nella mia mente costruita solo di estremi sono un’eternità.

Come sono entrata nella fabbrica

Mi rode scrivere di situazioni del tempo in cui c’era ancora Alck, soprattutto in questi giorni, perché negli ultimi due ci ho litigato. Io: non “Abbiamo” litigato, l’ho fatto da sola, come la gran parte delle cose mentre stavo con lui. Bella merda.

Comunque, quella mattina presto di foschia estiva, in cui il mio difetto d’attenzione mi aveva regalato la solita mirabolante esperienza di sentirmi a Narnia pur trovandomi semplicemente in una culandia qualunque appena sotto al Po, arrivo davanti allo stabilimento con il pathos di un’Indiana Jones scampata al Tempio Maledetto

parcheggio a bordo strada, tra la carreggiata e una discarica di pneumatici, sentendomi una consumata avventuriera e ricordando al furgoncino di fare il bravo in mia assenza, che era un attimo finire lì

suono il campanello con 10 decorosi minuti d’anticipo… suono un’altra volta, e poi ancora

non mi caga nessuno. Panico.

Corro attorno al cancello, ma non so dove perché è l’unica entrata di cui sono a conoscenza, sudo, suono di nuovo, salgo sul cancello e stendo il collo oltre. Nessuno. Ripeto il procedimento quattro volte, magari scatta l’incantesimo.

Suono ancora, urlo, ma il clangore e lo sferragliare che smaniano dalle porticine del grande prefabbricato, aperte per dissipare l’afa della notte estiva, mi fanno un dito medio: cosa potrà mai un misero “Buzzzzzz” contro l’armata spaccatimpani? (Allora cazzo lo mettete a fare…? Ma Vabé).

C’è troppo rumore, nessuno sente ‘na sega.

Poi, a un certo punto, l’eroico “Buzzzzz” scatta un’ultima volta dal campanello lungo il filo, scarta la scarica di frastuono che invade l’interno, subito prima che le macchine ricarichino le munizioni, e arriva alle orecchie giuste.

Se non ne hai mai frequentata una, la fabbrica è un posto strano. È rumorosa, massiccia; anche lenta e cadente, se lo stabilimento è vecchio come quello che dico io. Sembra un guscio sottile per il dinosauro semi infermo e lamentoso, il quale sembra starci molto scomodo.

Ovviamente parlo della fabbrica come una consumata operaia, in base al principio per cui ci si sente molto più esperti di qualunque cosa dopo una sola esperienza che dopo l’ennesima.

Un po’ mi mancherà, mi sono licenziata dieci minuti fa.

(Non mi ricordo cosa c’entrasse Alck, ho iniziato questo post mesi fa e poi boh, ma sticazzi).

Seguito

(Per fortuna posso fingere di essere stesa dalla terza dose oggi).

Dicevo, non avevo avvisato Alck del nuovo lavoro, per i perché e i percome già visti. La cosa non gli ha fatto piacere, ma ovviamente non lo ha rimarcato perché tra me e lui una vera confidenza si instaurava solo nei momenti delle grandi discussioni e poi scemava nella quotidianità, riportandoci all’educata condizione di semiestranei che si baciano spesso. Comunque neanche a me aveva fatto piacere, tre anni fa, che lui rifiutasse una proposta di lavoro per conto mio, quando una sua collega gli aveva chiesto di riportarmela. Durante una delle discussioni finali gliel’ho ricordato, perché era stato un brutto gesto. Lui nemmeno se lo ricordava.

(Da quando ho cominciato questa bozza sono passati credo quattordici giorni, incluso il Natale).

(E quasi un mese e una ripresa di psicoterapia ulteriore).

Nonostante siano passati pochi mesi, da quei giorni, non riesco a ricordare le date o gli eventi. Ricordo solo che ero contenta, stanca, frustrata da Alck e dalla mia incapacità di fare le cose che – fino a quello che mi sembrava il tempo di uno starnuto prima – avevo amato. Scrivere, soprattutto.

Ora, quel lavoro (lo stesso che faccio adesso), è strano. Nonostante da qualche settimana mi ritrovi sempre nella solita fabbrica, che è una grossa cliente e con un’amministrazione un po’ confusa e un sacco di gente a casa causa Covid, in genere posso trovarmi a fare di tutto e ovunque (in un ragionevole raggio).

Dallo scorso agosto ho tolto moquette (e colla sottostante, un incubo al metro quadro), scaricato rimorchi, rimosso un favo di calabroni del tutto ignara del livello potenziale di letalità, trovato lavoratori, visitato cantieri, pulito la stessa fabbrica – in gran parte da sola, perdendo la sensibilità a mezzo piede destro – accompagnato gente a lavorare, pulito giardini e potato siepi, e probabilmente dimenticato qualcosa.

Più di tutto, ho ricominciato a trovare quello che avevo perso.

Il giorno prima dell’inizio (perché il primo lavoro è stato alla fabbrica di biscotti che mi sequestrerà di nuovo tra qualche ora), Alck mi ha portata a vedere dove fosse, per essere sicura di trovarla facilmente. L’idea di andarci da sola un po’ mi spaventava: non ero abituata a guidare, non avendo un’auto mia. Per anni ero stata l’autista sobria di diverse serate, proprio perché non avendo l’auto ricambiavo gli eterni passaggi lasciando bere qualcosa a chi ce la metteva sempre, ma l’anno e mezzo di Covid mi aveva tenuta a casa, e l’anno e mezzo precedente mi aveva tenuta a casa Alck. E comunque gli amici con cui uscivo di solito si erano tutti sparsi agli angoli del pianeta, o dell’Italia, quindi c’era poco da stare sobri ai ritorni.

Comunque, la mattina in cui dovevo mi sono avviata, sullo scassato furgoncino messo a disposizione da Amica P, e ho raggiunto senza problemi (ma vari momenti di smarrimento nonostante il percorso praticamente obbligato: “Oddio, sono assolutamente certa che di qui non siamo mi passati, arriverò a Berlino anziché a lavoro!”) il posto.

I problemi sono cominciati quando, messo giù il furgoncino, mi sono resa conto che era praticamente impossibile entrare.